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Proiezione in carcere del film “Fuori” con le detenute in sala, il regista Mario Martone e Valeria Golino Applaudito nelle sale, il lavoro reduce dal Festival di Cannes è stato accolto con commozione dalle compagne della protagonista, scrittrice ed ex detenuta
Una reclusa ha detto al regista: «Guardando il tuo film non mi sono mai sentita giudicata»
Vite solcate dal segno di un ossimoro, come fu per la scrittrice Goliarda Sapienza che dichiarò di essersi sentita più che mai libera quando fu in prigione, nel carcere romano di Rebibbia. Accadde nell’anno 1980, per causa di un furto di gioielli che la scrittrice siciliana aveva sottratto a un’amica molto ricca nel quartiere dove lei stessa anche abitava, i Parioli. La detenzione fu breve, ma di tale intensità la temperie umana che Goliarda Sapienza in carcere avvertì e respirò, di tale forza le relazioni stabilite con le altre detenute, da segnarla per sempre e ispirarle molti ragionamenti e scritture. Di quel “dentro”, una volta fuori, portò con sé la nostalgia. Di quel “fuori” (la vita mondana di salotti di abbienti pseudo- intellettuali, vacui nella sicumera delle loro certezze, opinioni, sterile formulazione di continui giudizi su tutto), una volta conosciuto il “dentro” del carcere, le furono chiare la pochezza, l’inutile superficialità.
Fuori è azzeccatissimo titolo del film che Mario Martone, supportato dalla solida collaborazione della moglie e sodale Ippolita Di Majo, ha scritto e realizzato a partire dai due libri che Goliarda Sapienza dedicò a quel capitolo della sua esistenza ( L’Università di Rebibbia e Le certezze del dubbio, entrambi pubblicati in vita, al contrario dell’ignorato e perciò postumo L’arte della gioia). Dopo la selezione al Festival di Cannes come unica pellicola italiana, e a una settimana dall’uscita (con superba accoglienza) nelle sale, il film Fuori (prodotto da Indigo e The Apartment) giorni fa ha avuto una proiezione “dentro”, nello stesso carcere di Rebibbia dove tante scene sono state girate, e dove Mario Martone e l‘attrice protagonista Valeria Golino lo hanno rivisto insieme a un gruppo di detenute, varie delle quali “personagge” del film come interpreti di sé stesse. Circa quaranta donne, alcune rispetto al momento delle riprese nel frattempo uscite, altre trasferite in altro carcere.
«Grazie per come vi siete regalate, spero che questa visione sia un briciolo di giustizia; che possiate sentirvi fuori, come noi» dice in un intenso videomessaggio Matilda De Angelis (coprotagonista del film con Golino e con la cantante Elodie). «Il cinema è un gioco, e noi lo abbiamo giocato insieme» aggiunge Martone rivolto alle preziose spettatrici che compongono questo pubblico, per tanti versi il più importante: la loro reazione è riscontro primario, prova di verità (e di finzione) di una trama tratta dal mondo della letteratura ma le cui componenti di denuncia sociale e politica sono diverse, e sottilmente interconnesse. Il regista ricorda il primo sopralluogo, quando venne a Rebibbia accompagnato da Francesca Tricarico, fondatrice de “Le donne del muro alto”, compagnia teatrale che riunisce detenute ed ex detenute (di nuovo, il nodo/ snodo è il medesimo: il dentro, il fuori, il fuori come indelebile memoria del dentro). La sorpresa, a quella prima visita, di trovare lungo i vialetti di accesso fiori, piante, aiuole ben curate; pensare che quel verde andasse reciso, perché mostrare un carcere sede di tanta cura di bellezza sarebbe parso un controsenso. Capire che invece no, ogni singolo fiore andava custodito, per rispetto del luogo, e dello sguardo amorevole che la stessa Goliarda Sapienza sulla bellezza sempre ha saputo posare. C’è emozione nella sala del carcere in attesa che cominci il film: brusii, brevi risate, occhi umidi, voci di queste donne che si apprestano a rivedersi sullo schermo, curiose di come sia stato rappresentato quel “den-tro”, il loro “dentro”, e un “fuori” che di quel dentro porta l’impronta di nostalgia. Affetto e molto calore al ritrovare il regista che le ha dirette e ancora prima le ha guardate, ascoltate, seguite, intuite una per una, come persone. Mutuo riconoscersi, al di là di ogni cinepresa, o filtro, o schermo. Piacere di ritrovarsi, “quanto ci siamo diver-titi”, ricordo di una complicità che ancora a distanza di tempo è familiarità, il legame che crea l’essersi osservati senza veli, avere condiviso momenti la cui intensità rievocata si avverte nell’aria, tangibile.
Promesse di intensità che la proiezione non solo mantiene: oltrepassa. Guardato dentro, qui, a Rebibbia, il film produce un effetto moltiplicato. Fuori visto “dentro” colpisce di più ancora: amplificata la sua forza di racconto capace di spaziare con uguale nitidezza lungo la verticalità del tempo (continuo movimento di flashback tra il prima del dentro in prigione e il poi della vita “fuori”), e l’orizzontalità degli spazi, il dentro del carcere, piano terra dove le prigioniere s’incontrano e intessono la trama densa e intricata dei loro rapporti, e piano di sopra, il corridoio dietro le cui sbarre in una delle scene più potenti del film in tante scandiscono il “F-U-O-R-I” di allarme e protesta dopo il tentato suicidio di Barbara, una delle due detenute cui Goliarda Sapienza più si legherà in amicizia una volta uscita di galera – una volta “fuori”. «Facciamo finta che siamo ancora là» dice nel film Roberta, l’altra ex detenuta che la scrittrice Goliarda molto frequenta dopo la prigionia, e che tanto vorrebbe proteggere dalle insidie del “fuori” (tempeste degli anni Ottanta: l’eroina, la lotta armata). Il ricordo del “dentro” è ossessione ambivalente, ricordo inseguito ma anche rifuggito – a certi messaggi nella segreteria telefonica di Roberta, Goliarda Sapienza non risponde, nella vana speranza e forse nell’inconfessato desiderio di accantonare quel conturbante capitolo della vita. Qui invece, nel vedere il film “dentro”, in prigione, nulla è per finta: nessuno straniamento, nel buio osservando le reazioni di donne che di questo universo carcerario conoscono ogni sfumatura, il significato più autentico.
A proiezione conclusa, l’emozione è ancora più forte. Chi l’ha provata riascoltando la “battitura”, il suono prodotto dalle sbarre colpite con forza per richiamare l’attenzione contro ingiustizie o tragedie che si succedono “dentro”. Chi si è commossa pensando alla potenza delle amicizie nate in prigione e alla difficoltà di mantenerle una volta uscite fuori. Chi, come Valeria Golino e Mario Martone, presagisce e dice la nostalgia che avranno di loro, interpreti e spettatrici capaci di una qualità di empatia e di sorellanza che nessuna finzione né fantasia può arrivare a disegnare. Una volta di più, nozione dell’intensità che si vive “dentro”. Abitati da una sensazione di mancanza da rendere monito morale a immergersi nel “fuori” rappresentato dalle vite altrui, vite che non sono la nostra. Nel bellissimo finale del film, l’imperativo a continuare, per la scrittrice Goliarda Sapienza, sta racchiuso in una valigia gonfia di corrispondenze epistolari tra carcerate e i loro cari. Raccontare, tramandare: far vivere, e così sopravvivere.
C’è chi ragiona in senso più ampio ancora: una detenuta messicana si alza e legge a Mario Martone e a noi che siamo in sala una poesia composta pochi mesi fa. «In che posto puoi salvare le azioni di un essere umano? Se non è qui, se non è in posti di tanta sofferenza? La divisa dell’umanità e del rispetto reciproco cancelleranno il freddo e il buio delle sbarre tra le une e le altre. Solo lì avrà vinto il coraggio di far diventare il carcere un posto di dignità e onore». E altri versi, di un’autenticità che strappa il cuore, e un lungo appaluso.
«Grazie soprattutto di aver saputo ascoltare», si sente dire il regista prima dei saluti. Tutti andiamo via commossi; torniamo “fuori”, nel sole pieno dell’estate che incomincia, in animo la sensazione nitida che il fuori sia piuttosto dentro. Dentro il carcere: come Goliarda Sapienza pensava, e come dichiarò nell’intervista fattale da Enzo Biagi e riproposta durante i titoli di coda del film di Martone. Lui che in questa così intensa proiezione del suo film dentro il carcere di Rebibbia ha ricevuto da una detenuta il complimento più alto, per un artista: «Mai un momento, nel vedere il tuo film, mi sono sentita giudicata».