L’altra notte Joe Biden ha incominciato il suo discorso d’addio con una stoccata al successore sulla più urgente delle questioni contingenti, il cessate il fuoco fra Israele e Hamas. Il presidente in carica ha rivendicato la (fragilissima) tregua come un suo successo costruito in mesi di faticosi negoziati, bacchettando Donald Trump, che da par suo si è furbescamente intestato l’operazione.
Trump, ci ha tenuto a precisare Biden, sapeva dello stato dei negoziati soltanto perché «ho detto al mio team di tenere l’amministrazione entrante informata. Perché è così che deve essere: lavorare insieme come americani».
Poi si è dedicato a questioni più profonde, che hanno a che fare con lo stato di salute della democrazia americana, minacciata dalle tentazioni autoritarie di chi guida il paese e dalla «pericolosa concentrazione di potere nelle mani di poche persone ultraricche», un’oligarchia alla testa di un «complesso tecno-industriale» che minaccia il paese. È l’evoluzione, sei decenni dopo, del «complesso militare-industriale» denunciato da Dwight Eisenhower nel suo famoso discorso di commiato.
Le ultime parole di Biden alla nazione, insomma, sono state per lo più dedicate alla diarchia Trump-Musk e alla minaccia che questa rappresenta per la democrazia americana. Certo, ha elencato i successi della sua amministrazione – 17 milioni di posti di lavoro creati, crescita, misure per competere con la Cina, progressi sulle politiche ambientali, e così via – ma a conti fatti anche le scelte lessicali dell’addio sono state dettate dagli avversari a cui ha tentato di reagire. E dai quali è stato infine sconfitto.
Nel commiato del presidente si legge il bilancio della carriera politica di un dignitoso e zelante rappresentante delle istituzioni democratiche che nella storia sarà drammaticamente messo in ombra dal presidente che lo ha preceduto e da quello che è venuto dopo di lui, che per uno scherzo del destino sono la stessa persona.
Presidenze trasformative
Gli storici parlano di rare presidenze “trasformative” che ridefiniscono alcuni tratti fondamentali del loro tempo, introducendo elementi originali nel perimetro del dibattito. A queste si oppongono leadership più convenzionali, che si limitano a estendere o interpretare idee, riforme e linee di pensiero dettate da altri.
Franklin Delano Roosevelt, Ronald Reagan e Lyndon Johnson sono alcuni esempi di presidenti trasformativi del Novecento, e c’è un dibattito infinito su dove collocare in questa mappa John Fitzgerald Kennedy, presidente sempre sognato e altrettanto spesso sopravvalutato.
Barack Obama prometteva di essere il protagonista di una svolta per via dei suoi tanti primati – innanzitutto quello di essere stato il primo presidente nero – ma alla prova dei fatti è stato il protagonista di due mandati orientati al pragmatismo e al freddo calcolo, non scaldati dal fuoco della rivoluzione.
Dire che Biden non è stato un presidente trasformativo è un understatement. La sua intera carriera politica si è svolta in quella medietà in cui gli antichi trovavano la virtù e i moderni l’irrilevanza. È stato eletto al Senato nel 1972 con una certa dose di fortuna, e da allora ha pazientemente scalato i vari ranghi del potere al Congresso, accumulando cariche, amicizie, responsabilità e conoscenza delle dinamiche del potere di Washington. Lo ha fatto con metodo e prevedibilità, diventando così una di quelle figure necessarie per garantire la continuità istituzionale.
È stato esattamente per queste sue qualità che Obama lo ha scelto come vicepresidente. L’establishment democratico aveva bisogno di un custode del palazzo da affiancare a un senatore incredibilmente talentuoso ma con poca esperienza. Biden è stato un vicepresidente con ampi poteri e un certo (frustrato) desiderio di protagonismo pubblico, che si è poi consumato nel peggiore dei modi quando Obama gli ha comunicato che non avrebbe sostenuto la sua candidatura alla presidenza, preferendogli Hillary Clinton.
È arrivato alla Casa Bianca per ragioni simili a quelle che lo avevano portato al potere esecutivo la prima volta. C’era Trump da arginare, una pandemia da gestire, gravava sul paese il senso di un pericolo democratico che necessitava di un noioso difensore dell’ordine costituito per essere affrontato, e si è candidato con successo a svolgere questo compito storico.
Un compito importante, non c’è dubbio, ma, quando è stato chiaro che era troppo vecchio o troppo poco competitivo (o tutte e due le cose), ecco che l’ex amico Obama si è messo a lavorare per far fuori il pezzo di mobilia istituzionale che aveva fatto il suo tempo.
Insediamento
La fine della presidenza Biden non è felice. Se ne va con un amaro dissenso semipubblico con Kamala Harris, che si è offesa perché ha detto in giro che lui avrebbe vinto di nuovo contro Trump, contrariamente a lei. Se ne va dopo aver concesso la grazia al figlio Hunter, manovra familistica di difesa istituzionale perfettamente in linea con la carriera di Biden ma che ha fatto schiumare di rabbia la sinistra che voleva dimostrazioni di superiorità morale sul nepotista-in-chief.
Se ne va sorbendosi una cerimonia di insediamento che sarà una sfilata di impresentabili, ai quali ieri si è aggiunto anche il coleader di AfD, Tino Chrupalla, per non farsi mancare proprio nulla.
La storia renderà merito a Biden delle cose buone che ha fatto, se solo si troverà un po’ di spazio nei manuali fra tutto questo Trump.