Professore di teologia, vescovo, cardinale, prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, papa, infine papa emerito. Sono i titoli delle tappe della vita e del ministero di Joseph Ratzinger, il pontefice che voleva puntellare il cattolicesimo e la Chiesa tornando al passato, ovvero riproponendo in forma aggiornata i modelli preconciliari. E che invece, preso atto del fallimento del progetto, dimettendosi nel febbraio 2013 ha realizzato nei fatti la più grande riforma del papato degli ultimi secoli. Destinata, forse, a diventare prassi ricorrente, come ha già lasciato intendere Francesco, il suo successore tuttora assiso sulla cattedra di Pietro, che ha rivelato di aver già firmato la propria rinuncia in caso di impedimento medico.

Nato il 16 aprile 1927 a Marktl, piccolo comune della Baviera, Ratzinger entra in seminario mentre la Germania nazista si prepara a invadere la Polonia. Finita la seconda guerra mondiale, durante la quale viene arruolato nell’esercito tedesco senza tuttavia andare al fronte, comincia gli studi filosofici e teologici e nel 1951 viene ordinato prete. Inizia a insegnare teologia e dogmatica prima a Frisinga, poi a Bonn, Münster, Tubinga (dove è collega del teologo “eretico” Hans Küng) e Ratisbona. In questi anni partecipa al Concilio Vaticano II come perito (cioè esperto), collaborando con l’arcivescovo di Colonia Josef Frings, autorevole esponente della corrente progressista, da cui Ratzinger si allontanerà presto.

Nel marzo 1977 Paolo VI lo nomina arcivescovo di Monaco, tre mesi dopo lo crea cardinale. Nell’ottobre 1978 Karol Wojtyła viene eletto papa e di lì a poco comincia la “seconda vita” di Ratzinger: nel 1981 Giovanni Paolo II lo chiama a Roma alla guida della Congregazione per la dottrina della fede (Cdf), l’ex sant’Uffizio. Da quel momento il cardinale tedesco diventa per venticinque anni l’inflessibile guardiano della fede cattolica, difendendo, in tandem con Wojtyla, la Chiesa romana da ogni spiffero di modernità e spazzando via con energia tutti i granelli di polvere progressista che erano riusciti a penetrare all’interno negli anni tumultuosi del post Concilio. Arrivano i provvedimenti disciplinari contro i teologi della liberazione, che vengono ridotti al silenzio e spesso allontanati dalla Chiesa.

Ed è in generale tutta la libera ricerca teologica a essere imbrigliata – o imbavagliata – e sottomessa al magistero romano, in ogni angolo del mondo, dal canadese Curran (che critica l’Humanae vitae e sostiene il dissenso) al cingalese Balasuriya (che mette in discussione la dottrina sul peccato originale e l’immacolata concezione di Maria), dal belga Dupuis (teorico del pluralismo religioso) allo spagnolo Vidal (tesi eterodosse su contraccezione e aborto), fino agli statunitensi padre Nugent e suor Gramick per la loro attività pastorale con le persone omosessuali.

Il centralismo romano viene ulteriormente rafforzato indebolendo l’autonomia delle conferenze episcopali nazionali. E affermando, con la dichiarazione Dominus Iesus del’anno 2000, in pieno Giubileo, che è impossibile per gli esseri umani trovare vie di salvezza non solo nelle altre religioni ma anche nelle altre chiese cristiane diverse da quella cattolica romana: la pietra tombale su ogni possibilità di autentico dialogo interreligioso e l’eutanasia dell’ecumenismo, a meno che non sia guidato e diretto da Roma.

La codificazione dei «principi non negoziabili», poi, subordina di fatto l’azione politica dei laici alle direttive ecclesiastiche. Quando nell’aprile 2005 Wojtyla muore dopo una lunga malattia che lo aveva ridotto all’impotenza, Ratzinger è l’unico vero candidato alla successione. Viene eletto rapidamente nel secondo giorno al quarto scrutinio – superando agilmente Bergoglio, il secondo più votato in base alle ricostruzioni giornalistiche –, cominciando così la sua “terza vita”, da papa, in assoluta continuità con il quarto di secolo trascorso all’ex sant’Uffizio: rafforzamento del centralismo romano e salvaguardia della dottrina.

La sua elezione al soglio pontificio viene annunciata dal manifesto con una prima pagina che fa il giro del mondo («Il pastore tedesco»), suscitando critiche, anche violente, da parte di chi non coglie il vero significato del titolo e si ferma alla superficie.

L’immagine che il nuovo papa ha della Chiesa è quella di «una barca che sta per affondare», travolta dalla tempesta del relativismo, figlio della modernità. Può essere salvata solo tornando al passato, al pre-Concilio (e al pre ‘68), anzi al Concilio interpretato secondo «l’ermeneutica della continuità», perché il cammino della Chiesa non fa salti. Operazione sofisticata, ma di non facile realizzazione, tanto che il pontificato di Benedetto XVI è costellato di “incidenti” di vario genere e peso, che però rivelano una precisa idea di Chiesa e di mondo (con la complicità del maldestro cardinal Bertone, che Ratzinger ha voluto portare con sé dalla Cdf alla segreteria di Stato).

La prima frattura si verifica con il mondo ebraico quando, in visita ad Auschwitz nel 2006, autoassolve il popolo tedesco e la Chiesa cattolica, ingannati dai «potentati del terzo Reich» e ridimensionando il nazismo a un «gruppo criminale». A cui segue la riproposizione della preghiera del venerdì santo per i «perfidi ebrei», secondo il messale di Pio V (poi emendata) e la revoca della scomunica per il vescovo Williamson, lefebvriano e negazionista della Shoah. La seconda è con il mondo musulmano, quando nel 2006 a Ratisbona, citando l’imperatore bizantino Manuele II Paleologo, attribuisce all’islam cattiveria, violenza e disumanità. Poi c’è il rilancio della chiesa preconciliare, dall’uso di abiti, paramenti liturgici e oggetti da tempo chiusi in magazzino, al ben più significativo ripristino del rito tridentino (messa in latino, con il celebrante che rivolge le spalle al popolo), salutato con entusiasmo dai tradizionalisti.

Frattanto esplodono una serie di scandali che allargano le falle nella barca della Chiesa: dai vatileaks che rendono evidente la guerra tra bande che si combatte nei sacri palazzi, alle finanze vaticane, fino alla pedofilia del clero, sui cui Benedetto XVI inizia a intervenire con maggior fermezza rispetto al proprio predecessore Giovanni Paolo II. Ma anche rispetto a se stesso, sia nei venticinque anni trascorsi alla guida della Cdf – quando è stato intransigente con i teologi progressisti e poco attento ai preti pedofili –, sia nei cinque anni nei quali ha retto la diocesi di Monaco, quando, come emerso negli ultimi mesi, avrebbe chiuso gli occhi su quattro preti pedofili.

Nel febbraio 2013 inizia la “quarta vita” di Ratzinger: si dimette da pontefice, non per gli scandali ma per l’acquisita coscienza di non riuscire a guidare la Chiesa in crisi secondo la propria linea di governo. Diventa papa emerito e sceglie di restare comunque in Vaticano, trasformandosi, spesso involontariamente ma talvolta assecondando l’operazione – come quando firma insieme
all’ultraconservatore cardinal Sarah un libro contro l’abolizione del celibato dei preti proprio mentre il Sinodo dell’Amazzonia ne stava discutendo (firma poi ritirata) –, nel punto di riferimento dei conservatori che si oppongono a papa Francesco. E che ora sono rimasti orfani di un leader che ha avuto un ruolo centrale nella storia della Chiesa dell’ultimo quarantennio.