“Luce intellettual piena d’amore”: sono queste parole di Dante (Paradiso XXX, 40) a venirmi d’istinto alla mente ripensando alla persona e al pensiero di Joseph Ratzinger. Egli è stato anzitutto e soprattutto un teologo. Ben prima di essere vescovo, cardinale, papa, papa emerito, egli è stato, né mai ha cessato di essere, teologo. L’abito mentale teologico non l’abbandonò mai, e io penso che sia stato proprio per questo che egli si dimise dal papato, perché essere teologo è ben altra cosa che essere papa, e conciliare i due stati è molto difficile, credo impossibile, prova ne sia che, tra tutti i papi della storia, non ce n’è uno che sia stato un vero teologo. Tranne, appunto, lui.

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Che tipo di teologia è stata la sua? La si può riassumere con tre aggettivi: ecclesiale, razionale, spirituale. Con “ecclesiale” intendo il fatto che l’impostazione teologica cui apparteneva Ratzinger (condivisa tra i teologi cattolici contemporanei da Guardini, de Lubac, Congar, von Balthasar, Forte; e non condivisa da Teilhard de Chardin, Rahner, Küng, Boff, Molari) fa del riflettere sulla fede un atto eminentemente comunitario. Anche quando il teologo se ne sta tutto solo nel suo studio, egli non ha a che fare con pensieri personali ma con qualcosa che gli è stato consegnato, con un “depositum” che a lui spetta anzitutto custodire e consegnare incontaminato ad altri, secondo l’esortazione di san Paolo a Timoteo: “Custodisci il deposito, evitando le chiacchiere profane e le obiezioni della falsa conoscenza” (1Timoteo 6,20). I teologi di tale scuola hanno come supremo carattere distintivo l’amore per la Chiesa, di cui vivono con intensità l’appartenenza. Sant’Agostino si esprimeva così: “Io non crederei al Vangelo se non mi spingesse a credere l’autorità della Chiesa cattolica”. Il punto di forza qui è che si sperimenta un vitale senso di appartenenza a una tradizione più grande da cui si è generati e si viene portati, un’ininterrotta catena di santità seguendo la quale all’indietro nei secoli si giunge direttamente al Signore. Il limite, a mio avviso, è che da questa impostazione teologica non potrà mai sorgere un tentativo come quello di san Tommaso d’Aquino di porre un filosofo pagano (Aristotele) a fondamento della visione del mondo, o come quello di Teilhard de Chardin di fare la stessa cosa con il dato scientifico dell’evoluzione. La difficoltà che Ratzinger confessò di aver provato da giovane nello studio di Tommaso (“ebbi difficoltà nell’accesso al pensiero di Tommaso d’Aquino”) non era certo un problema di intelligenza, ma piuttosto la sensazione di trovarsi in un mondo a lui estraneo: “La sua logica cristallina mi pareva troppo chiusa in se stessa, troppo impersonale e preconfezionata”.

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Il secondo aggettivo per la teologia di Ratzinger è “razionale”. Cito diffusamente dalle sue opere più note: “Credere cristianamente significa intendere la nostra esistenza come risposta al Verbo, al Logos che sostiene e mantiene in essere tutte le cose”. E ancora: “La fede cristiana in Dio comporta anzitutto una decisione per la preminenza del Logos sulla pura materia”. E infine: “La fede cristiana in Dio è in primo luogo opzione per il primato del Logos”.

Queste affermazioni sollevano la questione decisiva di decidere da dove proviene la nostra ragione: è nata per caso nell’oscurità dell’universo da ciò che è senza ragione? Oppure proviene da un principio razionale che è il fondamento di tutte le cose? Ratzinger non ha dubbi: “La fede cristiana è, oggi come ieri, l’opzione per la priorità della ragione e del razionale”. Giunge così a scrivere: “Nell’alfabeto della fede, al posto d’onore, è l’affermazione: In principio era il Logos. La fede ci attesta che il fondamento di tutte le cose è l’eterna Ragione”. Ne deriva un’impostazione così lucida da poter risultare per qualcuno persino abbagliante: “La fede non vuole offrire all’uomo una qualche forma di psicoterapia: la sua «psicoterapia» è la verità”.

Il terzo aggettivo che connota la teologia di Ratzinger è “spirituale”. Per lui la più bella e concisa espressione della fede dei primi cristiani viene dalla Prima Lettera di Giovanni: “Noi abbiamo creduto all’amore” (1Giovanni 4,16). E commenta: “Cristo era diventato la scoperta dell’amore creatore, la ragione dell’universo si era rivelata come amore”. Trapela da queste parole l’armonia tra dimensione razionale e dimensione spirituale, dalla quale si comprende che quando Ratzinger parla di “ragione” non intende lo strumento analitico e calcolatore della nostra mente (prezioso, certo, ma insufficiente a governare l’esistenza intera, perché, come scrisse Tagore, “una mente solo logica è come un coltello solo lama”), ma intende la logica di armonia e di relazionalità che governa tutte le cose. I filosofi greci la denominavano Logos e il cristianesimo consiste nell’annuncio di questo Logos fatto uomo.

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Per partecipare al Logos, però, occorre amarlo con tutto se stessi. Per questo Ratzinger afferma che “la connessione tra teologia e santità non è un discorso sentimentale o pietistico, ma ha il suo fondamento nella logica delle cose”. Vale a dire: prima viene la santità, poi la teologia, perché nessun vero teologo è pensabile senza un’intensa vita spirituale, come Agostino per esempio non è pensabile senza la passione del suo cammino verso la radicalità cristiana, quell’Agostino che Ratzinger sentiva così vicino a sé: “Quando leggo gli scritti di sant’Agostino non ho l’impressione che sia un uomo morto più o meno milleseicento anni fa, ma lo sento come un uomo di oggi: un amico, un contemporaneo che parla a me con la sua fede fresca e attuale”.

Le tre peculiarità del pensiero teologico di Ratzinger (ecclesialità, razionalità, spiritualità) hanno inevitabilmente connotato anche il magistero papale da lui svolto con il nome di Benedetto XVI costituendone grandezza e limiti. Grandezza, grazie alla dimensione spirituale universalmente riconosciuta, perché egli è stato senza alcun dubbio un uomo di Dio che ha voluto ininterrottamente condurre a Dio. Limiti, a causa dell’ecclesialità e della razionalità che lo inducevano a voler ricondurre all’interno della tradizione le innovazioni sviluppatesi soprattutto nell’ambito della morale sessuale, della bioetica e della lotta contro le ingiustizie sociali da parte della teologia della liberazione, correndo in questo modo più di una volta il rischio di chiudersi a ciò che il Vangelo denomina “vento dello spirito”, che, sta scritto, “soffia dove vuole” (Giovanni 3,8).

Il giorno prima di essere eletto Papa, il 18 aprile 2005, durante l’omelia tenuta nella Basilica di San Pietro in quanto decano del Collegio cardinalizio, Ratzinger disse: “Tutti gli uomini vogliono lasciare una traccia che rimanga. Ma che cosa rimane? Il denaro no. Anche gli edifici non rimangono; i libri nemmeno. Dopo un certo tempo, più o meno lungo, tutte queste cose scompaiono. L’unica cosa che rimane in eterno è l’anima umana, l’uomo creato da Dio per l’eternità. Il frutto che rimane è perciò quanto abbiamo seminato nelle anime umane – l’amore, la conoscenza; il gesto capace di toccare il cuore; la parola che apre l’anima alla gioia del Signore”. Sono parole bellissime nelle quali ancora adesso si intravede il palpito del suo cuore. E io penso che Joseph Ratzinger, con il suo pensiero e la sua vita, ci abbia indicato da vero maestro il primato dell’anima e della spiritualità. Per questo lo ricordo quale fedele immagine della “luce intellettuale piena d’amore”.

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