Dunque i romani se non sono costretti dal lavoro o da qualcuna delle infinite incombenze irrisolvibili che affliggono ogni singolo cittadino della capitale, non si spostano mai da un quartiere all’altro. Questo significa molto semplicemente che non sappiamo niente gli uni degli altri e quindi, come sempre in questi casi, diffidiamo. Qualunque sia il nostro quartiere, l’altro, anche quello poco più in là, è periferia. E le periferie sono brutte, agglomerati casuali di palazzoni anonimi, e in periferia accadono cose efferate, sempre, per definizione. Proprio come sta accadendo in Francia nelle banlieue.

Ma a Roma non ci sono banlieue ( non ci sono ancora, ed è per questo che dobbiamo ragionare, adesso) e quelle che genericamente chiamiamo periferie di fatto non lo sono, e soprattutto non lo sarebbero se fossero servite da metropolitane e autobus, se non fossero quindi isolate. Sono quartieri, molti dei quali, almeno nelle premesse, anche aggraziati. Nati in un’epoca storica in cui architetti, politici, antropologi e artisti avevano voglia tempo e denaro per occuparsi della vita delle persone. Un tempo nel quale si progettava, anziché cercare vanamente di tamponare continue emergenze.
Se fossimo a Parigi, ognuno di questi quartieri sarebbe celebre per qualcosa, un teatro, un museo, una piazza, un mercato, un cinema… qualcosa per cui varrebbe la pena farci un salto addirittura andarci ad abitare. Di Roma, a parte il Colosseo qualcuno conosce il Pigneto, l’Esquilino, San Giovanni (che non sono molto più vicini al centro storico di Primavalle, Tufello, San Basilio) ma solo perché c’è un certo ristorante, o un locale. Tavolini sui marciapiedi. Tavolini che vendono spritz a dieci euro. Si chiama gentrificazione, ma a Roma è esclusivamente alimentare. Non porta niente di buono, nessuna poesia, nessuna immaginazione. Gli altri quartieri – quelli che non sono periferia ma in cambio non sono quasi niente se non esperimenti falliti, lasciati a metà – non li conosce nessuno, né i romani né nessun altro. Passano alla storia per episodi di criminalità. Primavalle prima dell’omicidio di Michelle Maria Causo era quella del rogo dove morirono i fratelli Mattei.

Era il 1973, sono passati cinquant’anni nei quali il quartiere è scomparso, sprofondato nell’indifferenza, nella incapacità. Abbandonato a se stesso, sempre più isolato. Non sto giustificando, non sto minimizzando. Al contrario: sto cercando di mettere i fatti accanto ai fatti, e i fatti dentro i contesti, perché solo così si ha la minima possibilità di capirci qualcosa, e dunque di intervenire. In questi quartieri i ragazzi esercitano giorno dopo giorno la loro irrilevanza. Girano a vuoto, non vedono niente di interessante, nessuno li ascolta. Spacciano. Perché anche su questo non si riesce a fare un ragionamento sensato.

È possibile che la quasi totalità degli adolescenti debba aver avuto contatti con la criminalità, per non dire di chi la pratica, per procurarsi sostanze? Alcune sostanze. Mentre altre si vendono in farmacia, dal tabaccaio, a quei tavolini sui marciapiedi a dieci euro a bicchiere. Noi adulti siamo incapaci di pensare il mondo, da decenni. E ci meravigliamo se in questo mondo modellato su idee del secolo scorso i ragazzi sono a disagio. I ragazzi e le ragazze sono stufi di noi, come noi eravamo stufi dei nostri padri delle nostre madri.

Ma questi ragazzi e queste ragazze hanno un problema in più: si sentono ingannati da una falsa attenzione che non è altro che lo specchio del nostro narcisismo. E che come una malìa li inchioda, li paralizza, li trasforma in coleotteri che noi osserviamo con un misto di tenerezza e discredito. È una specie di mostruoso esperimento sociale: gli ultimi trent’anni sono stati fantasmagorici, biotecnologie e intelligenza artificiale stanno cambiando tutto quello che sapevamo, nascono città dal deserto, l’umanità ha davanti a sé il compito meraviglioso di ridefinire se stessa, di invertire la rotta per salvare il pianeta… E noi reagiamo rimanendo immobili.

Non facciamo niente, per paura di sbagliare. Inaspriamo le pene, è il nostro grottesco mantra. Come se servisse a qualcosa, come se non fosse palesemente il segno di una resa. Da una parte ci stracciamo le vesti per questi nostri figli sbalestrati, disperati, violenti. Dall’altra li teniamo lontanissimi dalle discussioni, dalla politica, facendo loro subire lo spettacolo pietoso delle nostre esternazioni sui nomi dei cani, la virulenza degli attacchi contro l’aborto, la gestazione per altri, le famiglie omogenitoriali.

Tutti temi che per loro non esistono, sono già acquisiti da tempo, fanno già parte della loro vita. Ci guardano come quando, col telefonino in mano col quale abbiamo appena smesso di trafficare, spieghiamo loro che non devono stare a trafficare sul telefonino, che è sbagliato, che fa male.

C’è una sola strada per evitare i ghetti, le banlieue, le periferie, ed è quella di connettere. Lo dice sempre Renzo Piano, bisogna rammendare, fecondare i quartieri di edifici pubblici, servizi, scuole, università, biblioteche, centri civici, attività culturali, collegarli al centro senza l’obbligo di utilizzare l’auto, potenziando i trasporti pubblici, ma soprattutto ascoltare le persone che ci abitano. E ancora di più i ragazzi e le ragazze che stanno diventando completamente afasici, muti, sordi. Se vogliamo affrontare il loro disagio dobbiamo renderli rilevanti, utili. Dobbiamo considerarli risorse e non un problema da risolvere.

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