Gilles Lipovetsky non è citato molto frequentemente sui giornali, non è ospite fisso di manifestazioni culturali, non è uno storyteller problematico e ombelicale, non è un alambicco di mitologie di riscatto più o meno conciliate. Ma è il teorico più lucido del presente. Formazione filosofica secondo la linea francese dal marxismo all’esistenzialismo. Attivista durante la contestazione del ’68. Dal marxismo è pervenuto a una accettazione, critica, del modello capitalista. Non è un ottimista e non è un pessimista.

L’INTUIZIONE DELL’IPERMODERNO

Lipovetsky ha introdotto la definizione di Ipermoderno, che non è solo una trovata lessicale, ma un’intuizione vera. Il moderno ha giocato tutte le sue carte, prima illuministe, poi storiciste, (derive antidemocratiche incluse), sull’avanzamento e sul progresso. Il post-moderno teorizzato da Jean-Francois Lyotard ha rilevato la fine delle Grandi Narrazioni (la “fine della Storia” si sarebbe detto poi): al progresso preferiva semmai le apocalissi. L’Ipermoderno è una sorta di restaurazione, un rinvenimento otto-novecentesco, una iper-versione del moderno, potenziata da una parte dal mercato post-fordista, dall’altra dal mondo-ambiente digitale.

Dalla fine degli anni Novanta siamo consapevoli che la Storia non era affatto finita. Che i problemi sociali irriducibilmente esistono. Così cerchiamo di farci dei ripari ideologici un po’ passatisti e un po’ artificiali: patriottismo, sovranismo, populismo, antifascismo, animalismo, cultura green, consapevolezza di genere. Cerchiamo di costruirci dei ripari esistenziali: psicologie, mindfulness, bolle ascetiche di tutti i tipi, fede para religiosa nella scienza, ossessione per la salute. Cerchiamo di costruirci ripari estetici, con il vintage o con l’avanguardia. Ma, una volta sperimentata la disillusione, è possibile tornare all’illusione?

FEBBRE DELL’AUTENTICITÀ

Di Lipovetsky è appena uscito un bel libro corposo, la summa del suo pensiero filosofico-sociologico, La fiera dell’autenticità (Marsilio 2022, pp. 397, euro 20), ma in italiano “sacre” oscilla tra “fiera”, “sagra”, “sacro”.

Lipovetsky mette subito in chiaro una contraddizione gigantesca. «Dilaga una febbre di tipo nuovo, irresistibile e onnipresente: la febbre dell’autenticità. Gli individui la reclamano, i cittadini la esigono, i politici la promettono, i consumatori la desiderano, i professionisti della comunicazione e del marketing la invocano senza sosta, come in un mantra: l’autenticità è assurta a parola feticcio».

Ma «nel momento stesso in cui assurge a ideale di massa e assioma pressoché incontestato l’autenticità come tema filosofico forte ha smarrito il prestigio che possedeva nella riflessione dei grandi pensatori. Il successo del concetto e la capillarità straordinaria con la quale si è diffuso nel dibattito sociale si accompagnano all’eclissi della sua aura filosofica».

Dunque l’autenticità è un concetto esausto. La febbre dell’autenticità è una «recessione filosofica», che si è trasformata in un «trionfo sociale».

PARADIGMA MODERNO

Come si è arrivati a questo? Qual è la storia del concetto di autenticità? «Per migliaia e migliaia di anni, le cosiddette società tradizionali hanno candidamente ignorato l’ideale dell’autenticità soggettiva: norma suprema e fonte di ogni legittimità era piuttosto la tradizione, fondamento assoluto dell’ordine sociale e politico (…) Il funzionamento di queste società, organizzate secondo un principio “olistico”, escludeva il riconoscimento dell’autonomia individuale, della soggettività come principio, e perciò tendeva a non valorizzare i sentimenti e la “sincerità d’animo”»

Il paradigma dell’autenticità nasce nell’Europa dei Lumi, con Rousseau. Autore delle Confessioni, che non sono indirizzate a Dio (come quelle di Agostino), ma a io. Alla coscienza individuale. Rosseau è il primo eclatante moralista autofictionistper il quale bisogna vivere «secondo la verità particolare del singolo, sulla base del “sentimento interiore” e della “voce del cuore”».

Attraverso Goethe e il Romanticismo l’autenticità si delinea sempre di più come un qualcosa di eroico, che si sviluppa contro le regole sociali. «Insieme al mondo moderno nasceva la figura dell’artista bohémien, con il suo caratteristico disprezzo per l’uomo borghese».

L’artista bohémien nega gli aspetti commerciali come le convenzioni morali ed estetiche. Per Nietzsche l’uomo autentico è il singolo fuori dal gregge. In Heidegger si coglie una continua polemica contro la  mentalità del “si”: si dice, si pensa. In Sartre l’uomo autentico è quello che si strappa al conforto della malafede, inventandosi ogni giorno nel rischio e nell’angoscia.

LIBERTARISMO NOVECENTESCO

Dopo la fase dell’autenticità eroica, che dura un paio di secoli, viene la fase dell’«autenticità libertaria» dagli anni Sessanta del Novecento. Le rivendicazioni di autenticità si affermano per la prima volta come un movimento sociale, un fenomeno collettivo animato da un ideale comunitario e utopico, una rivolta totale che rimette in discussione gli assiomi fondanti della nostra civiltà.

«L’esigenza dell’autenticità personale oltrepassa la cerchia elitaria degli artisti e dei letterati», scrive Lipovetsky, «ormai interessa un’intera generazione, è diventata un movimento di massa, espressione di una gioventù ribelle». È quella che Theodore Roszak chiama la Controcultura. Liberazione sessuale, droghe, azzeramento dei rapporti di autorità.

E nell’Ipermoderno, a partire dalla fine degli anni Novanta, almeno nella cultura occidentale siamo nella fase dall’«autenticità normalizzata». L’emancipazione, l’essere sé  stessi, viene accolto e promosso anche dalle istituzioni (con sacche di resistenza, naturalmente), e domina nella cultura mainstream.

LA NORMALIZZAZIONE

«Ormai sganciata da ogni prospettiva rivoluzionaria, la nuova era dell’autenticità comporta comunque una radicalizzazione degli obiettivi e degli effetti, perché tutte le vecchie riserve sociali e simboliche (come le rappresentazioni della differenza tra maschile e femminile, della giovinezza, delle minoranze sessuali e di genere) si trovano squalificate e, così, non riescono più a contenere il suo dinamismo intrinseco. Venuta meno qualsiasi opposizione di principio alle sue istanze, la cultura dell’autenticità si pone come diritto della persona.

Dopo l’autenticità anticonformista e l’autenticità libertaria si afferma così l’autenticità normalizzata, generalizzata, post-eroica, massimo vettore antropologico dell’individualismo contemporaneo». Siamo di fronte al diritto iperbolico di essere sé stessi.

È un bene? Secondo Lipovetsky in fondo sì. È un paradosso? Naturalmente sì. Si diceva all’inizio che l’autenticità è un concetto filosofico esausto che è diventato un trionfo sociale. L’idea di autenticità è stata messa in crisi da un secolo e mezzo di pensiero. Guy Debord scriveva contro la “società dello spettacolo”. Più tardi Jean Baudrillard ha annunciato l’avvento di un’era della simulazione totale.

La possibilità di una autenticità “esibita” è per sé stessa una contraddizione. Inoltre un concetto che si sviluppa solo oppositivamente, contro le regole sociali, e alla fine diventa regola sociale fa venire qualche dubbio.

Il sospetto è che l’autenticità come valore fondante sia una presa di posizione perfettamente ipermoderna: nostalgica, irraggiungibile, garantita dal’eroismo del passato (le battaglie per l’autoaffermazione e per i diritti) come polizza politico-esistenziale per il futuro. Le piattaforme online ci danno una grossa mano in questo, personalizzando e radicalizzando, mantenendo sul piano della (propria) rappresentazione ogni “nostra” espressione. Siamo al sunset porn dell’autenticità?