All’ingresso della sua casa di Teheran dove lo hanno arrestato l’altra notte (era il marzo 2010) insieme alla moglie Tahereh, alla figlia Solmaz e altre 15 persone, Jafar Panahi tiene in vista una grande locandina di Ladri di biciclette, capolavoro del neorealismo e fonte di ispirazione quasi inesaurabile per la cinematografia extra-europea. «Ladri di biciclette – raccontava Panahi – mi ricorda uno dei momenti migliori all’Università, quando per l’analisi artistica del film di De Sica fui promosso a pieni voti da Sefollah Dad, professore di storia del cinema. Fu Dad, grande ammiratore del maestro italiano, a incoraggiarmi su questa strada».

JAFAR, CHE NEGLI ANNI si era fatto un nome come aiuto regista di Abbas Kiarostami, aveva appena finito di montare Il cerchio, il film sulla condizione femminile in Iran che poi averebbe vinto il Leone d’Oro a Venezia ma che a Teheran continuava a restare vietato dalla censura. Quasi nessuno lo aveva visto in sala ma in città circolavano – come di quasi tutto ciò che è proibito – le copie pirata. Panahi all’epoca vantava già una serie di premi, a Locarno, a Cannes, ma come molti cineasti iraniani era un autore nel libro nero dei mullah.

Fu con un sorriso amaro che mi rivelò la vera storia de Il cerchio: «E stato proprio lui, il mio ex professore, Sefollah Dad, che all’Ershad, il ministero della Cultura, ha bloccato la distribuzione della pellicola. Un giorno l’ho incontrato, ricordandogli come qualche anno fa difendesse l’espressione artistica contro ogni intervento politico. Adesso è diverso, mi ha risposto, non sono più un insegnante, ho un’altra responsabilità».

FU IN QUELLA OCCASIONE che Jafar mi regalò una suo ritratto dove si era fatto fotografrare dietro le sbarre di una finestra. Sembrava che fosse nella cella di un carcere. «In realtà – spiegò – sono timido e non mi piace apparire in primo piano, così quando dall’estero mi hanno chiesto una foto per una mostra sul cinema iraniano ho mandato questa, dove il volto è quasi mascherato.

Timido e gentile Panahi lo è veramente. Ma anche dotato di un carattere forte, per niente incline ai compromessi e sempre pronto a prendersi il rischio di parlare a favore della libertà e dei diritti civili.

ERA STATO KIAROSTAMI nei primi anni Novanta, a presentarmelo. Kaveh Golestan, uomo di cinema e grande giornalista, premio Pulitzer nel ’79, ucciso nel 2003 da una mina in Kurdistan mentre filmava la guerra per l’Associated Press, mi incoraggiò: «Vai a intervistare Jafar: nei film usa le metafore, come tutti noi, ma quando parla di politica dice sempre quello che pensa».

Un giorno il distributore del film cerca Panahi per annunciargli che avrebbero proiettato Il cerchio a Bahman, il centro culturale nella zona sud della città. Sui muri avevano già attaccato i manifesti. Panahi raggiunto all’estero dalla notizia molla tutto e torna in Iran. Dopo qualche esitazione la censura però fece togliere le locandine di Dayereh, Il cerchio. Si ripiegò così per una proiezione, a mezzogiorno, al cinema Sephideh di Enghelab Street.

In prima fila c’era anche Shrin Ebadi, che poco dopo sarebbe diventata Nobel per la pace. Il cerchio, forse il più riuscito dei suoi film, racconta la storia di tre donne che tentano di sfuggire all’emarginazione, alla legge islamica, alle regole della tradizione, agli uomini, a una condizione esistenziale penosa che prevede soltanto un punto di sospensione: la fuga.

 

 

ALLA FINE PANAHI SALÌ SUL PALCO per dire che si può rompere il cerchio e uscirne. «Mi interessava descrivere la condizione delle donne perché sono quelle che subiscono più restrizioni degli altri. Non è solo la legge a punirle: è la nostra mentalità, sono le nostre abitudini, ripetute come riflessi condizionati. Il giorno in cui nacque mia figlia, nell’89, dovevo andare all’Università per discutere la tesi. Arrivai all’ospedale e mia madre mi venne incontro. Non ti preoccupare, mi disse, vai pure tranquillo all’esame: è nata una femmina».

In questi giorni Panahi stava montando un documentario sulle manifestazioni di Teheran. Nel luglio scorso era già stato arrestato e poi rilasciato per avere partecipato a una commemorazione di Neda, la ragazza uccisa durante le proteste dell’Onda Verde seguite alla rielezione di Ahmadinejad.

LA PELLICOLA È LA TESTIMONIANZA di questa indomabile forza di raccontare e protestare che il regime dei pasdaran non riesce a frenare, se non ricorrendo alla repressione e al carcere. «Trent’anni dopo a rivoluzione – ha detto qualche tempo fa lo scrittore Akbar Ganji – la prigione di Evin, fatta costruire dallo Shah negli anni Settanta, è ancora il posto dove trovi le persone più rispettabili».

 

Cinema, musica e arte sotto attacco

L’arresto di Jafar Panahi è una notizia rimbalzata su tutte le pagine della stampa mondiale, anche perché è arrivata a distanza di 48 ore da quella dell’arresto di Mohammad Rasoulof e di Mostafa Al-Ahmad – a favore dei quali Panahi aveva espresso il suo sostegno sui social. In un suo post del 10 luglio si legge: «All’alba dell’8 luglio Rasoulof e Al-ahmad, critici schietti e cineasti impegnati, sono stati aggrediti nelle loro abitazioni e portati via in un luogo sconosciuto. Condanniamo la pressione che i filmmaker indipendenti e i pensatori liberi stanno subendo. Condanniamo anche la sistematica violazione da parte delle istituzioni dei diritti sociali e dell’individuo. Chiediamo l’immediato rilascio dei nostri colleghi». La brutale repressione contro esponenti del mondo dell’arte, del cinema, e purtroppo diventata consuetudine da parte del regime iraniano. Proteste che vanno di pari passo con una crisi sociale ed economica senza precedenti.

Nei mesi scorsi ci sono state forti tensioni in Iran, dove una mobilitazione contro l’aumento dei prezzi dei generi alimentari si è diffusa in almeno venti città, diversi sindacati hanno proclamato scioperi per ottenere salari migliori e il pagamento di quelli arretrati e la repressione delle autorità ha colpito giornalisti, attivisti, professionisti del settore cinematografico e persone con la doppia nazionalità. Anche il mondo della musica ha subito in questi anni processi e discriminazioni. Fra i casi più eclatanti quello avvenuto nell’agosto del 2020 nei confronti del musicista iraniano underground Mehdi Rajaban, 30 anni a processo «per aver collaborato con cantanti donne e ballerine».

TUTTO A CAUSA di un suo album – non completato – che include anche cantanti donne, cosa vietata in Iran. Secondo l’accusa, la sua musica «incoraggia la prostituzione». Rajaban, che vive a Sari, nel nord dell’Iran, ha spiegato di essere stato convocato dalla polizia, arrestato e portato in tribunale dopo l’uscita, sempre sulla Bbc, di un’intervista sull’album ancora in lavorazione e la pubblicazione di un video con la celebre ballerina classica persiana Helia Bandeh che si esibisce sulla sua musica. Rajaban è stato poi rilasciato, ma solo perché la sua famiglia ha potuto pagare la cauzione.