Aldo Moro fu un democristiano assai particolare. Al suo partito offrì la sua sapienza politica e il suo amore per la vita pubblica, assicurandone l’unità in tutti i passaggi più difficili e controversi di quegli anni, rispettandone la disciplina e aderendo a tutti i suoi codici fino agli ultimissimi giorni della sua vita. Solo a quel punto, prigioniero delle Brigate rosse e condannato a morte, abbandonato al suo destino, si trovò a rompere quel vincolo che aveva intessuto con certosina pazienza per trent’anni e più.

Al resto del mondo – gli altri partiti, gli intellettuali, gli studenti, gli avversari, i critici – sembrò offrire piuttosto un’idea e uno stile che apparivano per molti versi agli antipodi della sua comunità. Una sorta di ribellione interiore all’ordine delle cose che si era trovato a servire – ma anche a cercare di modificare – e che gli aveva via via guadagnato l’apprezzamento (non sempre disinteressato) di altri mondi.

A Beppe Pisanu, giovane deputato moroteo, il leader repubblicano Spadolini confidò un giorno: militiamo nella stessa corrente ma in partiti diversi. Come a dire che ci si sarebbe potuti professare seguaci di Moro avendo in tasca un’altra tessera, o nessuna tessera.

Quel confine che Moro non aveva mai attraversato veniva varcato in quegli anni da una quantità di persone di ogni scuola e disciplina. Come a voler allentare il nesso tra il leader e la sua tribù.

E così, poco alla volta, Moro ha finito per diventare l’icona di una politica che forse non era la sua. Non del tutto, almeno. Raccontato come una figura adamantina (lo era) e come un cavaliere solitario (non lo era affatto). Reso avulso dal suo contesto e sciolto da quasi tutti i suoi vincoli. Quei vincoli che egli stringeva e allentava, a seconda dei casi e sempre con una grande fatica e direi anche una sorta di intima sofferenza. Ma senza mai reciderli.

La letteratura e il cinema contribuirono a marcare e rimarcare quel confine. Fu Todo modo di Leonardo Sciascia a raccontare una Dc quasi blasfema. E poi Gian Maria Volonté a impersonare nell’omonimo film di Petri un Moro cupo, torbido, descritto come maestro dell’intrigo. Una rappresentazione che Moro visse con un particolare, acuto, doloroso senso di ingiustizia. Era ancora un Moro democristiano, quello che veniva messo in scena. Il più intelligente dei democristiani, se vogliamo. Ma non il più innocente. Anzi. Semmai quello che spalancava le porte degli inferi.

UNA FENDITURA

Di lì in poi però si aprì una fenditura, via via più rilevante, nella percezione della distanza che correva tra Moro e la Dc. Nel senso che il suo partito divenne sempre meno “suo”. E la differenza di visione, di respiro, di generosità che correva tra lui e la gran parte dei suoi colleghi cominciò a dar luogo al racconto di un Moro che non era già più un democristiano. Lui volava alto, e gli altri razzolavano in basso. Lui pensava allo stato e gli altri, a malapena, al partito. Lui aveva sacri princìpi e gli altri solo mondani interessi. E via di questo passo.

Questo conflitto tra il leader e il partito sarebbe via via diventato un luogo comune. E tanto più nei primi mesi di quel maledetto 1978. Prima, quando Moro riuscì a trascinare democristiani e comunisti verso un patto che nessuno dei due mondi voleva più di tanto. Poi, quando venne rapito e tra lui e piazza del Gesù si spalancò l’abisso. A quel punto non c’era quasi più verso di raccontare un Moro democristiano. E la sua maledizione, scagliata addosso al suo partito, sembrava recidere alla radice ogni comunanza del passato.

Quei giorni ce li racconta ora l’intensità della serie televisiva di BellocchioEsterno notte; e ancora più l’intensità della recitazione morotea di Gifuni (commovente, punto). Facendoci rivivere una volta di più i giorni della più tragica lontananza tra il sovrano ormai spodestato e sul punto di venire giustiziato e il suo regno avviato di lì a qualche anno al suo mesto tramonto.

Storia dell’altro ieri, si dirà. Eppure non priva di una sua involontaria attualità. Già, perché quel dilemma – se Moro fosse dentro o fuori dai confini democristiani – allude a come erano i partiti in quella stagione, a come sono diventati poi, a come possono forse cambiare ancora, a come magari un giorno o l’altro potranno reinventarsi.

Il legame tra Moro e la Dc, come si intuisce, era complicato, sofferto, disagevole. Non c’è dubbio che una larga parte del partito lo vivesse con insofferenza, infastidito dal suo primato intellettuale, perplesso sul suo disegno politico e dubbioso sull’esito del suo progetto strategico. E altrettanto non c’è dubbio che Moro a sua volta ricambiasse, sia pure con un garbo estremo, molte delle ostilità di cui era fatto oggetto. Anche prima di quelle lettere così dolorose, così volutamente impietose, si avvertiva in Moro una sorta di furore ben trattenuto rivolto ad alcuni dei suoi stessi colleghi di partito.

Al capo opposto di tutto questo – gli equivoci, le incomprensioni, le rivalità, le insofferenze – c’era però il codice politico di quella stagione. Un codice in base al quale non c’era salvezza fuori da quelle chiese laiche che erano i partiti del tempo. E dunque quei mondi andavano per forza di cose tenuti insieme con una sorta di doverosa, reciproca, inesorabile sopportazione. Poiché, come si diceva allora, era sempre meglio sbagliare insieme che aver ragione da soli.

A questo codice, come è noto, Moro si uniformò più di una volta. A cominciare da quando, nel 1971, trovatosi in lizza con Giovanni Leone per la candidatura al Quirinale e persa la contesa nei gruppi parlamentari per una dozzina di voti, rinunciò a farsi eleggere da una maggioranza che mettesse assieme i voti delle sinistre e quelli di quasi mezza Dc. Unico caso di un candidato che si fece da parte pur avendo i voti per essere eletto.

Due anni dopo Moro contribuì, assieme a Fanfani, Rumor e Colombo, a riportare la Dc verso il centrosinistra, disarcionando il segretario Forlani e il premier Andreotti che avevano aperto le porte verso destra. Circola a questo riguardo una leggenda. E cioè che la sera prima Andreotti si sia recato a far visita a Forlani per spiegargli, pallottoliere alla mano, che forse c’erano i voti per resistere e vincere il congresso. Consiglio a cui Forlani avrebbe obiettato che non si poteva pensare una Dc «senza Fanfani e senza Moro».

Ancora. Nel 1977 Moro prese la parola in parlamento per difendere Luigi Gui. E lì pronunciò quell’anatema – “non ci faremo processare nelle piazze” – che per un attimo ne farà l’araldo di un sistema che non lo amava più di tanto e il bersaglio di una piazza che lo avrebbe capito solo dopo. Ma anche in questo caso, la difesa di un suo amico faceva tutt’uno con la difesa del suo mondo. E anche forse di quella parte di quel mondo che non sentiva poi così vicina a sé.

Per non dire, l’anno dopo, di tutti quei parlamentari democristiani contrari alla solidarietà nazionale confessati e rassicurati uno a uno, con un dispiego infinito di pazienza; e infine convinti a sacrificare sull’altare dell’unità del partito le loro più intime e riposte convinzioni di principio.

Tanti frammenti di una storia che tende sempre a riprodursi per somiglianze, a dispetto delle mille differenze e sfumature che la attraversano.

VINCOLO DI PARTITO

Ora, tutti questi episodi, e moltissimi altri, servono a dar l’idea di quanto solido fosse il vincolo di partito, e di quanto Moro ritenesse che solo il suo partito – pur tanto discutibile, sofferto, riottoso e così difficile da gestire – poteva avverare il suo disegno politico. Anche quando si trattava di prospettare traguardi tanto nobili, tanto poco partigiani, tanto altamente istituzionali, da rivelarsi stridenti con gli interessi, chiamiamoli così, di bottega.

All’epoca, solo la fatica di confrontarsi con ragioni diverse all’interno di un luogo politico comune dava senso all’esistenza di un partito. Ma quel luogo a sua volta doveva essere presidiato, se non proprio con slancio patriottico, almeno con la consapevolezza che qualche tratto comune doveva pur sempre venire garantito. E magari coltivato con la pazienza che la politica esige da chi vi dedica almeno un po’ di tempo.

Ma è soprattutto dal carcere delle Brigate rosse che Moro si fa ancor più democristiano. Egli infatti richiama il suo partito alla sua stessa ispirazione. E nel chiedere aiuto per sé cerca di sospingere la Dc nel verso delle sue ragioni più tipiche e più profonde: la flessibilità, il possibilismo, la trattativa. E la difesa dei più deboli, lo spirito umanitario, la salvezza della vita umana, soprattutto. È un Moro molto “democristiano” quello che prega, implora, critica, inveisce, suggerisce, cercando di aprire strade alla trattativa. A cui si oppone una Dc assai poco “morotea” nel tenersi invece stretta stretta al copione della fermezza.

Ed è ancora tipicamente democristiano quel Moro che dal buio del carcere delle Brigate rosse chiede almeno che si riunisca il consiglio nazionale del partito, l’organo di cui è presidente, per confrontare alla luce del sole le opposte opinioni e strategie sul da farsi. Come a invocare attraverso la procedura una ragione di partito senza di cui un partito non ha più una sua ragion d’essere.

Ora, tutto questo non aggiunge nulla di nuovo alla biografia politica di Moro. E neppure alla complessità della sua figura e del suo ragionare. Piuttosto, ricorda cosa erano, e cosa dovrebbero essere, i partiti. E cioè luoghi nei quali si spende ogni parola, ogni gesto, ogni fatica al fine di far convivere ragioni diverse. Poiché la democrazia è, appunto, la più alta forma di convivenza. E della convivenza Moro era maestro, in un modo tutto suo.