Gian Carlo Perego
Eleonora Camilli
Monsignor Perego, presidente della Fondazione Migrantes e della commissione migrazioni della Cei, come giudica il progetto Albania alla luce della terza mancata convalida dei trattenimenti da parte dei giudici?
«I giudici delle Corti d’appello hanno confermato quanto fatto dai giudici delle sezioni specializzate, che avevano quindi agito secondo legge e non in maniera ideologica. In generale, siamo di fronte a un’operazione costosissima, con un grande dispendio di denaro pubblico, quasi un miliardo, che poteva essere usato per migliorare l’accoglienza e l’integrazione dei richiedenti asilo in Italia. Un tema che ci vede al 16° posto in Europa. E poi c’è la questione non secondaria dei diritti».
E cioè?
«Lo Stato deve accogliere chi arriva ed esaminare le domande d’asilo sul proprio territorio. La procedura accelerata, invece, per definizione comprime il tempo e i diritti. Nell’ultimo viaggio, inoltre, mancando il personale di Oim per lo screening, ci sono state meno garanzie per minori e vulnerabili. Così l’operazione Albania dimostra l’incapacità di onorare l’articolo 10 della Costituzione, che impegna a tutelare chi fugge da situazioni di guerra e violenza».
Secondo Lei perché il governo ha deciso di andare avanti nonostante le bocciature precedenti?
«Credo che di base ci sia un’ingenuità politica nel pensare di fermare le migrazioni in questo modo. Invece, è solo un’operazione di immagine sbandierata come sicurezza. Il fatto che il governo abbia stilato una lista di Paesi sicuri non significa che il diritto d’asilo non debba essere riconosciuto come diritto personale. E cioè che non si debbano valutare le storie di chi chiede asilo, perché anche se in un Paese non ci sono guerre ci possono essere persecuzioni di tipo religioso o politico o altro, che mettono a rischio le persone. L’Italia considera sicuri 19 Paesi, altre nazioni come la Germania ne considerano 9. Questo significa che c’è molta discrezionalità. E lo sappiamo bene, guardiamo l’Egitto e cosa succede lì, a partire dal caso Regeni».
Il governo giustifica il progetto con l’effetto deterrenza che dovrebbe avere sui migranti.
«Per i migranti non cambia nulla, vista la situazione in Libia. Chi è destinato a torture e violenze cercherà sempre un domani migliore provando a fuggire. Il sogno di chi parte non può essere infranto evocando i campi in Albania».
A proposito di Libia, cosa pensa del caso Almasri?
«Aver rilasciato e rimandato indietro un torturatore per il governo implica una responsabilità morale e politica. Vedremo se ci sarà anche una responsabilità penale. Di certo in questo modo si indebolisce un organismo internazionale come la Corte penale internazionale. Se si firmano accordi si devono rispettare».
Si è parlato di ragion di Stato. C’è anche, più o meno rivendicata, l’idea del rilascio per evitare un aumento degli arrivi sulle nostre coste.
«Se fosse così sarebbe ancora più grave. Per una ragione di Stato non si indebolisce un accordo internazionale. Inoltre gli accordi fatti con Stati come Libia, Tunisia ed Egitto, cioè con Stati che non tutelano i diritti, sono pericolosissimi. Gli mettiamo in mano una un’arma di ricatto. Lo abbiamo visto nei giorni scorsi con l’aumento degli sbarchi. Quello che si dovrebbe fare, invece, è creare dei canali regolari. Ma purtroppo questo tema è in fondo all’agenda della politica. A oggi non esiste un canale regolare d’ingresso, fatto salvo qualche corridoio creato dalle Chiese cattoliche ed evangeliche e dalle organizzazioni per il volontariato.