In breve. Pochi giorni fa un neonato collettivo di artisti, curatori e scrittori, chiamato “Art Not Genocide Alliance”, ha lanciato una petizione piuttosto dura, che chiede esplicitamente “l’esclusione di Israele dalla Biennale di Venezia” affermando che “offrire un palcoscenico a uno Stato impegnato in continui massacri contro il popolo palestinese a Gaza è inaccettabile”. Testo durissimo, come peraltro lascia intendere il nome del collettivo. In base ai precedenti della Russia (“Biennale non accetterà la presenza alle proprie manifestazioni di delegazioni ufficiali, istituzioni e personalità a qualunque titolo legate al governo russo” aveva detto la Fondazione nel marzo 2022) e ancor di più del Sudafrica, escluso dal 1968 al 1993 a causa dell’apartheid, i firmatari chiedono di bandire Israele, concludendosi con perentorio: “No morte a Venezia. No all’ordinaria amministrazione (no business as usual, in inglese, ndr) durante il massacro”. La petizione, redatta in sei lingue, ieri in poche ore ha raggiunto un numero di firme che supera le 10 mila, tantissimi nomi dell’arte contemporanea, artisti e curatori che collaborano con la Biennale 2024 o vi hanno lavorato nel passato, docenti universitari, anche direttori di musei e fondazioni.
Ai giardini della Biennale, Israele è presente fin dagli anni 50 con un suo padiglione nazionale: tutto confermato anche per quest’anno, con un’esposizione incentrata sulla fertilità. Del caso si era parlato già alla fine di ottobre, dopo l’invasione di Gaza seguita agli attacchi di Hamas. In particolare, il Palestine Museum Us, una istituzione americana che preserva la storia palestinese e della diaspora, aveva allora denunciato che il suo progetto espositivo non era stato accettato (come tanti altri progetti privati, va detto) mentre si permetteva a Israele di esporre. Ma la polemica non era destinata a esaurirsi. Troppo vicino il ricordo, tra gli addetti del settore, di quanto accaduto nel 2022, con le prese di posizione da parte della dirigenza di Biennale contro il governo russo, l’invito all’Ucraina a esporre in uno speciale spazio dedicato, e il ritiro della Russia a pochi mesi dall’apertura dell’esposizione: da allora, il padiglione russo è rimasto chiuso.
Biennale ha scelto di non commentare la petizione, limitandosi a far sapere che non c’è paragone con il caso Sudafrica, allora vittima di un boicottaggio internazionale. Lo ha fatto però il ministro Gennaro Sangiuliano, difendendo Biennale e gli artisti israeliani: “Israele non solo ha il diritto di esprimere la sua arte, ma ha il dovere di dare testimonianza al suo popolo proprio in un momento come questo in cui è stato duramente colpito a freddo da terroristi senza pietà. Ai suoi artisti e a tutti i suoi cittadini va la mia più profonda solidarietà e vicinanza”. Difficile credere che gli animi si acquieteranno presto. Dopo due anni in cui spirano i venti di guerra, e agli artisti viene chiesto di dissociarsi dai loro governi, ormai nulla sembra rimasto dell’arte come ponte tra culture: l’arte è divenuta anch’essa territorio di scontro politico e geopolitico, e chissà cosa ne rimarrà alla fine.