A Davos i cortigiani di Trump
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24 Gennaio 2025
Viviamo in società indifferenti ai destini altrui, senza freni, con cristallizzazioni delle diseguaglianze, adorazione dei ricchi e nostalgia per rigide regole sociali d’altri tempi. Si venera ogni atteggiamento assertivo, narcisistico purché rassicurante
Siamo entrati nell’era della grande incertezza e uno dopo l’altro cadono presìdi e cambiano paradigmi che rischiano di trascinare il mondo verso un nuovo soft power dove strutture apparentemente democratiche tradiscono i principi democratici tradizionali e fondamentali. Qualcuno la chiama era del new populism, che è qualcosa di diverso e più pericoloso dei populismi classici e del suprematismo identitario degli sceriffi di Visegrad in perenne stato di resistenza assediati da nemici storici, dall’Islam agli immigrati ai neri, dai radicalchic ai comunisti agli ecologisti. Dopo la (seconda) elezione di Donald Trump avanza un deterioramento della convivenza democratica dove l’intreccio perverso di ignoranza e paura spinge verso formule di organizzazione sociale sempre più aggressive, contraddistinte da assenza di scrupoli e mancanza di limiti in una miscela scellerata di disprezzo, cinismo, spregiudicatezza e rancore, in grado in un batter d’occhio di sbaragliare tutte le semantiche della democrazia faticosamente raggiunte dall’elaborazione politiche nel corso degli ultimi due secoli. Una nuova democrazia del livore si affaccia alla soglia della prima metà del nuovo millennio, indifferente ai destini altrui, società senza freni, cristallizzazioni delle diseguaglianze, adorazione dei ricchi e nostalgia per rigide regole sociali d’altri tempi. Si venera (e lo si vota) ogni atteggiamento assertivo, combattivo, narcisistico purché rassicurante, onnipotente e decisionistico, dove la polarizzazione esprime e alimenta la fatica della democrazia.
La democrazia va ancora bene solo come un cammino tracciato dall’alto, naturalmente a fin di bene, democrazia della tutela e non della partecipazione, dittatura dal volto buono, oltre le democrature alla Orban, democrazia dei visionari che guardano sempre in alto a un presunto bene del popolo e non al popolo. È la fine di quella democrazia che intralcia, blocca a volte, s’impiccia delle decisioni poiché preoccupata del bene di tutti. Non è una cosa nuova e nemmeno nuova è la riflessione. Già Alexis de Tocqueville, due secoli fa nel memorabile saggio De la démocratie en Amérique, metteva in guardia dal “potere immenso e tutelare” di chi non vede i cittadini eppure si incarica di
assicurare a loro i beni e di vegliare sulla loro sorte. C’è in giro, con Trump a rafforzarne il perimetro, un’esaltazione e celebrazione del capitalismo più cinico che, dopo la “reaganomics” e i tempi della Lady di ferro, sembravano essere state consegnate alla storia. Ed è sparito anche l’intramontabile dibattito se deve essere la democrazia a stabilire i vincoli del mercato o il mercato a stabilire i vincoli della democrazia. Con Elon Musk, principe certificato dei visionari senza paura, ricevuto con gli onori di un capo di Stato dai governi di tutto il mondo, si è fatto un passo avanti nel chiarimento dell’incertezza. Ci avviamo verso il capitalismo oligarchico e la democrazia globale dei “vantaggi competitivi”, innescati dall’avidità e dai conflitti. Le concentrazioni di capitali e la loro capacità di muoversi alla velocità della luce, rendendo difficile ogni controllo, sono il segnale inquietante di un potere economico pervasivo e nemmeno più velato dal delizioso oblio della definizione di “gnomi dell’economia”, che oggi è in grado di sottomettere le istituzioni.
Gli gnomi hanno nome, cognome e numero di matricola, un potere economico che si impadronisce di quello politico e che funziona e si adatta in maniera stupefacente alla democrazia dei “vantaggi competitivi”, cioè ai conflitti. Vari studi indicano che chi sta meglio si arma di più e soprattutto esporta di più. L’ultimo è del professor Stefano Lucarelli, docente di economia politica all’Università di Bergamo, che in passato aveva già analizzato insieme ad altri il rapporto tra spesa mi-litare, concentrazioni di capitali e debito.
La novità dell’ultima indagine ancora in corso e presentata in anteprima ad un seminario di Pax Christi a Camaldoli in autunno è la correlazione tra spesa militare e Indice di sviluppo, lo strumento che misura il benessere meglio del Pil, messo a punto dall’Onu nel 1990 sotto la guida dell’economista indiano Amartya Sen, premio Nobel per l’economia nel 1998. Il ragionamento è semplice e parte dal bisogno di sicurezza indotto dalla democrazia della tutela, che giustifica la percezione così di maggior benessere. Il professor Lucarelli la chiama icasticamente “la complessità del male”, perversione ormai del circuito militar- monetario internazionale, perché la finanza armata in fondo non porta maggior benessere. In Italia, dove la spesa militare ha raggiunto picchi mai visti nella storia della Repubblica, sta avendo effetti negativi sul benessere il cui indice diminuisce: un miliardo speso in armamenti produce 3160 posti di lavoro contro 35 mila se gli stessi soldi venissero spesi per sanità, istruzione ambiente. Poi ci sono Paesi che per contenere conflitti interni invece di distribuire la ricchezza in modo diverso e aumentare la partecipazione dei cittadini, allargando la democrazia, investono in armamenti. Ma per tutti i Paesi la relazione è significativa e cambia i paradigmi. Così la diplomazia ormai serve a rassicurare mercati e non a evitare i massacri, quella che si cerca è la pace finanziaria per accumulare più ricchezza. Nessuno si faccia distrarre dalle parole al miele di Donald Trump e di Elon Musk sulla pace globale, che sarà pace militarizzata. I fatturati stratosferici dell’industria delle armi costituiscono la parte più dinamica della finanza globale e del governo del commercio mondiale. Senza di essi si rischia di andare a rotoli. La metà degli oltre 2400 miliardi di dollari che ogni anno si investono in armi provengono da banche, assicurazioni, fondi pensioni. Il benessere oggi è governato dalla guerra, l’industria bellica a governare le scelte economiche al posto delle necessità sociali, la sanità, l’istruzione, il lavoro, la partecipazione, insomma i pilastri della democrazia. Lo chiamano “Warfare state”, concetto che ha sgominato quello di “Welfare state”, che permette al sistema attuale di stare in piedi nel bene e nel male. Il 40 per cento della corruzione globale è legata al commercio delle armi, alimentata dalle prime dodici banche armate del mondo americane che sono in grado di orientare politiche governative a tutte le latitudini e fondi sovrani di ogni dove. Gli esperti lo chiamano “capitalismo dei disastri” che insieme a quello oligarchico fiacca la democrazia e incrementa propagande e livore. Ma il futuro sarà più incerto, anche perché meccanismi sempre più sofisticati per la costruzione di un nemico, la lotta di etnie, la rissa tra le nazioni e lo scontro tra religioni verranno considerati strumenti legittimi per la costruzione del new populism democratico, in tempo di guerra e in tempo di una pace, comunque armata.