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Mi scuso di non essere nato a Siena. È una frase che potrebbe sembrare ironica, ma oggi torna utile. Perché da sindaco di questa città, per diversi anni, ho imparato che l’appartenenza non si misura soltanto nella genealogia, ma nella capacità di ascoltare, custodire, decidere. E anche di esporsi, quando serve.
In questi giorni si è tornati a parlare di Palio, Contrade, giustizia, identità. La sentenza sul fronteggiamento tra Nicchio e Montone del 2018 ha riaperto una ferita, ma soprattutto ha mostrato quanto sia fragile l’equilibrio tra spontaneità e regola, tra orgoglio e responsabilità.
L’intervento del sindaco Nicoletta Fabio, così fortemente allineato al documento del Magistrato delle Contrade, ha scelto una via difensiva, identitaria, impermeabile. Una via che si regge su tre pilastri: l’incomprensibilità agli estranei, l’orgoglioso isolamento, la retorica dell’invidia.
Ma chi amministra una città – e parlo per esperienza diretta – ha il dovere di fare da ponte, non da eco. Ha il dovere di distinguere il linguaggio simbolico delle Contrade da quello istituzionale della città. Ha il dovere, anche, di parlare con la magistratura, con i media, con chi guarda a Siena da fuori, senza ridurlo a un intruso.
Il Palio è una festa unica, irripetibile. È vero. Ma non è sacra in senso intoccabile. È storica, sociale, politica, popolare. E come ogni cosa viva, ha bisogno di essere accompagnata nel tempo, non cristallizzata. La spontaneità, da sola, non basta. Il rispetto reciproco, da solo, non protegge. Occorre una regia pubblica che sia all’altezza della complessità, non che si nasconda dietro l’autenticità come scudo.
Quando si dice “chi non è nato a Siena non può capire”, si esclude non solo chi arriva dopo, ma anche il futuro della città. Si fa della tradizione un bastione, non una soglia. E Siena – lo dico da ex sindaco che ha cercato ogni giorno di tenerla aperta, viva, protagonista – non può permetterselo.
Mi scuso allora, ancora, per non essere nato a Siena. Ma rivendico di averla servita. E lo dico oggi, da cittadino, con un auspicio: che la politica torni a esercitare il suo compito, che è quello di tenere insieme memoria e cambiamento, senza temere né l’uno né l’altro. Perché custodire davvero una tradizione non vuol dire sottrarla al giudizio. Vuol dire saperla raccontare, interrogare, trasformare. Con rispetto. Ma anche con coraggio.