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25 Giugno 2025Autonomia, diritto e controllo nella società italiana
In Italia, sulla carta, il corpo è nostro. La Costituzione lo proclama inviolabile, sancisce il diritto alla salute, tutela la libertà personale. Ma nella pratica, quella libertà è fragile, condizionata, spesso più teorica che reale. Il corpo non è solo nostro. È anche della legge, della medicina, della religione, delle convenzioni sociali. È un campo di battaglia tra autonomia e potere.
Decidere se diventare genitori, se cambiare genere, se curarsi o lasciarsi morire: tutte queste scelte, che dovrebbero riguardare solo chi quel corpo lo vive, sono ancora oggi soggette a giudizi, limiti, autorizzazioni. Il corpo è uno spazio politico, sorvegliato e normato. Un territorio dove si misura il grado di libertà effettiva di una democrazia.
Già negli anni Settanta, il filosofo Michel Foucault aveva individuato questa dinamica. Secondo lui, nelle società moderne il potere non si esercita solo attraverso divieti o repressioni, ma soprattutto attraverso dispositivi di controllo e normalizzazione. È ciò che Foucault definisce biopotere: la capacità delle istituzioni di intervenire sulla vita e sui corpi, regolando la sessualità, la salute, la riproduzione. Un potere che non punisce, ma disciplina. Che non si impone con la forza, ma con la norma.
Lo vediamo bene in Italia.
Nel diritto all’aborto, garantito dalla legge 194 ma reso difficile da un’obiezione di coscienza diffusa, in alcune zone fino al 90% dei medici.
Nel fine vita, dove a fronte di sentenze importanti della Corte costituzionale, manca ancora una legge che permetta a ciascuno di scegliere come e quando morire con dignità.
Nel percorso di transizione di genere, che resta vincolato a valutazioni medico-legali, come se l’identità non fosse questione di consapevolezza, ma di autorizzazione esterna.
In tutti questi casi, il corpo è trattato come oggetto da regolare, non come soggetto da ascoltare. Si resta in attesa di un permesso, di una conferma. Si è sospesi, in bilico tra diritto formale e accesso reale.
Ma il corpo non è solo spazio di controllo. È anche luogo di resistenza. Le lotte femministe, queer, transfemministe, i movimenti per l’autodeterminazione e per i diritti delle soggettività marginalizzate, ci ricordano che il corpo è il primo territorio della politica. Che non c’è democrazia senza libertà corporea. Che non c’è giustizia senza la possibilità di scegliere, davvero, su di sé.
Rivendicare l’autonomia del corpo significa rivendicare il potere di decidere su ciò che ci riguarda in modo più profondo. Significa riconoscere che nessuno, per quanto animato dalle migliori intenzioni, può decidere al posto nostro. Significa dire che la libertà non può essere condizionata, somministrata, concessa: o è piena, o è negata.
Per questo, la domanda “Ma in Italia, a chi appartiene il corpo?” non è solo filosofica. È politica. È giuridica. È concreta. E finché sarà più facile per le istituzioni decidere su di noi, piuttosto che garantirci i mezzi per decidere noi stessi, quella domanda resterà aperta. E continuerà a parlarci della nostra libertà, della nostra giustizia, del nostro futuro.