Due o tre consigli non richiesti per chi ha già deciso (o ci sta pensando) di andare a votare per il segretario del Partito democratico alle primarie il 26 febbraio. E qualcosa che ho capito del voto di domenica prossima.

Il primo consiglio è di non dimenticare subito le elezioni del 25 settembre 2022. D’accordo, non sono state il nuovo 18 aprile 1948, come ha scritto Ernesto Galli della Loggia (Corriere della Sera, 19 febbraio), e Giorgia Meloni non è Alcide De Gasperi, ma rischiano di consegnare il centrosinistra a una lunga stagione di irrilevanza, in un quadro internazionale che non resterà come prima.

Chi si trova ora al governo dovrà gestire, come negli anni Cinquanta, la nuova guerra fredda, un nuovo piano Marshall, un’Europa da rifondare. Un problema in più per chi è all’opposizione, assieme alla disaffezione per le forme della democrazia. Settantacinque anni fa votò il 92 per cento, le elezioni erano la massima forma di partecipazione, per tutti e tutti insieme. Oggi è il deserto.

Non vanno lasciati cadere nel nulla i risultati elettorali delle ultime elezioni regionali, soprattutto i voti assoluti. Nel Lazio il centrodestra unito ha preso il 12-13 febbraio 943.614 voti e ha stravinto, con Francesco Rocca e una percentuale del 53,8 per cento. Nel 2018 prese 964mila voti, nel 2013 959mila.

Lo stesso identico risultato come voti assoluti, ma con performance diverse, perché in quei giorni si votava anche per le elezioni politiche e i candidati del centrodestra furono sconfitti da Nicola Zingaretti. Per il centrosinistra vale l’opposto: domenica scorsa ha preso 581mila voti, nel 2018 ne conquistò poco più di un milione (1.018.000), nel 2013 un milione e 330mila.

Il massiccio astensionismo della regione Lazio, ha votato il 37,2, il record negativo, ha dunque colpito soprattutto il centrosinistra. Il centrodestra da dieci anni porta a votare circa 950mila elettori, forse sempre gli stessi, che passano da un partito all’altro: da Forza Italia a Lega a Fratelli d’Italia. Il centrosinistra invece perde ottocentomila voti, quasi due terzi, dopo aver governato per dieci anni. A giustificare l’emorragia non c’era una nuova offerta politica, come il Movimento 5 Stelle.

In questi giorni è in uscita il film di Mario Martone dedicato a Massimo Troisi, morto quasi trent’anni fa (il 4 giugno 1994), ieri 19 febbraio avrebbe compiuto settant’anni. Laggiù qualcuno mi ama è un omaggio al regista, autore, attore scomparso, ma è anche un elogio dell’imperfezione, il desiderio di cambiamento, l’impossibilità del cambiamento e la necessità di coltivarlo sempre. È dunque un film politico, su quei quei sentimenti che Troisi ha rappresentato artisticamente: la timidezza, l’imbarazzo. Il disagio.

La domanda che ogni politico, ogni sano professionista della politica dovrebbe farsi (Antonio Bassolino usa raccontare di quando il Pci perse le elezioni a Castellammare di Stabia durante il governo di solidarietà nazionale e fu convocata una direzione nazionale apposita per fare l’analisi del voto), è se tra le astensioni e il disagio ci sia una correlazione.

Certamente il disagio conta sulla lontananza dal voto dei giovani, come dimostrano i due principali interventi politici di queste settimane, quello di Ornella Casassa, l’ingegnera edile di Genova di 28 anni che ha rifiutato un posto da 750 euro netti e ha attaccato l’assenza della sinistra: «Ha lasciato cadere l’asticella troppo in basso», e quello di Emma Ruzzon, rappresentante degli studenti all’università di Padova, che ha denunciato i suicidi dei coetanei, la «narrazione mediatica» che trasforma «le eccellenze in normalità» e crea «aspettative asfissianti che conducono al fallimento».

Sono state subito trasformate in icone mediatiche, e a rischio logoramento immediato. Ma il disagio che esprimono non coincide affatto con la cultura del piagnisteo trent’anni fa così definita da Robert Hughes, rivista da ultimo sul palco di Sanremo, giustamente sbeffeggiata da Giovanni Orsina (La Stampa, 13 febbraio): quella è brama isterica di visibilità per alimentare il brand, conformismo spacciato per battaglia civile.

Il disagio è lontano dai riflettori, è qualcosa che si incrina e poi si rompe, provoca dolore più che rabbia, non fa rumore, è uno scisma silenzioso.

Come gli elettori che non vanno a votare, i circoli che chiudono, la solitudine che accompagna chiunque si trovi a compiere una scelta, individuale o collettiva. O la ricerca di speranza e di senso che si sposta altrove, in molte direzioni, ma non più nella sfera politica.

IL CONTEMPORANEO CHE NON C’È

Per il Pd a congresso incrociare questa ricerca è necessario. È l’unica risorsa vitale, per essere nella contemporaneità, un partito del nostro tempo, capace di leggere i segni dei tempi. «Questo è il tempo che ci è dato da vivere, con tutte le sue difficoltà»: lo disse Aldo Moro, presidente della Dc, nel suo ultimo discorso pubblico, ai gruppi parlamentari del partito, 45 anni fa, il 28 febbraio 1978.

Dalla sua fondazione in poi, un pezzo di classe dirigente del Pd ha tradotto questa necessità o con un’adesione (fin troppo) entusiasta alla realtà presente, nell’illusione di governarla, o con il semplice adattamento alle circostanze, come il guanto alla mano, in modo trasformistico.

Un altro pezzo, invece, ha coltivato la nostalgia del passato, come se nulla fosse cambiato, o l’ostilità per il tempo presente. Una nostalgia che riguarda entrambe le culture di fondazione, i post-comunisti e i cattolici-democratici.

È rimasta esclusa la possibilità di capire, strutturare un pensiero critico, provare ad aprire spazi di libertà di riflessione e di azione. Quella che si definisce cultura politica, che regge un partito nelle sue scelte, quando si trova al governo e quando sta all’opposizione.

Se si prende il congresso da questo punto di vista, bisogna ammettere che il dibattito culturale è stato particolarmente povero. Il catalogo messo in campo da gran parte degli intellettuali che sono intervenuti è servito soprattutto a dimostrare la sterilità, il «vuoto di idee» che circonda il partito, di cui parla Aldo Schiavone all’inizio del suo Sinistra! Un manifesto (Einaudi): «È la testa che il Pd ha perduto, innanzitutto; o probabilmente non l’ha mai davvero avuta. Il cervello, assai prima del cuore».

Il pensiero aiuta a rifuggire la tattica, la scorciatoia della comunicazione, l’orribile parola della narrazione, lo storytelling. Serve a formare leadership non nevrotiche, autenticamente solide perché dotate non solo del senso della realtà, ma anche della capacità di lettura della società.

Muoversi senza un pensiero, invece, significa per esempio trasformare senza consapevolezza l’ex Iena televisiva e europarlamentare del Movimento 5 Stelle Dino Giarrusso, intervenuto alla convention di lancio della candidatura di Stefano Bonaccini per annunciare l’adesione al Pd, nel prototipo del neo-intellettuale organico.

Un punto di congiunzione tra politica, comunicazione e spettacolo. Per anni è la zona percepita come il campo privilegiato di promozione e di diffusione del leader di turno, il teatro su cui bisognava muoversi, ora doveva essere superato per occuparsi di questione sociale, lavoro, questione climatica, le disuguaglianze di genere e generazionali, l’integrazione di chi supera i confini, la tecnologia che cambia il modo di produrre, vivere, pensare e che sconvolge le forme della democrazia degli ultimi due secoli. Ma di tutto questo si è parlato pochissimo.

Ha scritto Gino Mazzoli (Politica 1/2023 per Domani): «La scena pubblica nell’ultimo trentennio ha compiuto progressivamente un cambio di paradigma condensabile nella locuzione immaterialità x velocità, dove spazio e tempo (le condizioni base in cui si svolge l’esperienza umana) sono stati ridotti a variabili inessenziali. Il clima globale iperveloce si aggrega intorno ad alcune dimensioni chiave (infinito, scritto, immateriale, teorico, globale – nel senso di delocalizzato, veloce, individuo) che possono venire progressivamente delegate a macchine. Le dimensioni che vengono messe in secondo piano dall’attuale mood del mondo (circoscritto, orale, corporeo, pratico, locale, lento, gruppo, comunità) sono quelle che caratterizzano più specificamente l’essere umano».

La nuova destra, a partire da quella di Donald Trump nel cuore degli anni Dieci, riesce a tenere insieme le due dimensioni. Assume un volto conservatore, di difesa della tradizione, rispetto a quelle fasce di popolazione che si sentono minacciate dall’innovazione, e al tempo stesso si riproduce e si rafforza nello smantellamento dei corpi sociali intermedi per lasciare posto al rapporto diretto tra il Capo, il Capotreno – o la Capatrena – e il popolo.

La sinistra, al contrario, ha prima considerato in modo acritico l’infosfera come la nuova agorà, portando il consenso che ancora riusciva a raccogliere in offerta votiva all’altare dei giganti hi-tech, poi si è trovata spiazzata ed è passata ad esorcizzare il nuovo mondo dei social come il male assoluto, il regno di tutti i populismi, il veicolo dell’autoritarismo.

La sinistra appare legata a un progressismo immaginario, virtuale, con il dito alzato e la predica sempre pronta (siamo i migliori) e in disarmo rispetto ai corpi sociali disfatti e lasciati incustoditi. Il progresso si confonde con il passato e con un futuro indefinito, ma non con il contemporaneo.

IL CUMULO DEI DIFETTI DEL VECCHIO E DEL NUOVO

In entrambe le mozioni congressuali manca la questione istituzionale. Il cambiamento del sistema politico. Eppure, fin dal 1989, la trasformazione del principale partito della sinistra si è sempre collegata a un’idea di riforma dello Stato.

Per Achille Occhetto nel 1989-91 il cambio del Pci in Pds era la chiave di accesso per sbloccare la democrazia italiana: per questo ci fu l’adesione ai referendum Segni e al maggioritario.

Per l’Ulivo di Romano Prodi, nella sua forma originaria, quella pensata da Arturo Parisi e mai attuata, il partito doveva essere lo strumento della democrazia dei cittadini, con l’atto fondativo delle primarie che alludevano a un modello americano: un mezzo di partecipazione, non più un fine.

Era la tesi numero uno tra le 88 tesi contenute nel libretto verde dell’Ulivo (1995), approvate dalle assemblee di base in tutta Italia: «Il nostro paese ha bisogno di completare la transizione aperta dalla stagione referendaria senza indugiare oltre in una terra di nessuno dove rischiano di cumularsi i difetti del vecchio e quelli del nuovo».

Si prevedeva una commissione Bicamerale per riscrivere la Costituzione e, per la prima volta in un programma del centrosinistra, si ipotizzava l’elezione diretta del presidente della Repubblica. Il Pd, nella versione di Walter Veltroni (2007-2008) faceva riferimento esplicito ai Democratici di Barack Obama.

In tutti questi passaggi, però, il governo interno del partito è andato nella direzione opposta. Si predicava il partito-mezzo, strumento di partecipazione, il partito dei cittadini e delle primarie, e si costruiva il partito delle correnti che anticipava come si sarebbe mosso l’intero sistema politico nel decennio successivo, dopo il 2011.

Un sinedrio di pochi capi inamovibili ha gestito ogni svolta, innalzando e abbattendo il segretario di turno, ordinando e disponendo le carriere politiche per cooptazione e non per competizione. Le primarie si sono trasformate in uno stanco rito.

Tutto questo ha consentito al Pd di diventare il partito-sistema degli anni Dieci in Italia, con la benedizione del vero segretario del partito che ha pilotato dall’alto, dal Quirinale, le decisioni più importanti. Il Pd è stato il partito più attrezzato a stare al governo e al potere con chiunque, le larghe intese, le unità nazionali, le maggioranze spurie.

Anche perché con lo stesso metodo si reggeva largo del Nazareno, le stesse correnti, gli stessi capicorrente, detentori di un pacchetto di azioni nel partito e nel governo (come ministri). Il Pd è andato al governo senza voto, le correnti hanno comandato a largo del Nazareno senza legittimazione. Il cumulo dei difetti del vecchio e del nuovo, come diceva la tesi numero uno del partito.

È questa la vera deriva che ha trasformato il Pd in un partito a vocazione minoritaria. Minoritario perché spaventato dalla competizione, con il complesso di non riuscire a diventare maggioranza, i figli di un dio minore. Segnato per i nipotini del Pci dall’anatema dalemiano (Gargonza, 1997: l’Italia è un paese di destra, con il corollario che per andare al governo bisogna allearsi con la destra) e dalla subalternità degli ex popolari.

Oggi quell’orizzonte si è esaurito. Le correnti tanto temute non esistono più. Il congresso segna il tramonto definitivo delle culture fondative. I post-comunisti sono rinculati fino al rimpianto della rivoluzione d’ottobre del 1917, come ha fatto Goffredo Bettini. I cattolici democratici sono esausti. Gli ulivisti assistono allo spegnersi di un progetto mai nato. E i capicorrente, esorcizzati ad arte, sono ridotti a un pugno di generali senza truppe, signorini della guerriglia, come si è visto nel caso di Dario Franceschini o di Andrea Orlando, schierati con Elly Schlein.

I veri padroni del partito sono quelli che Mauro Calise dieci anni fa ha definito micro-notabili: amministratori, sindaci, in gran parte in sostegno di Bonaccini. Il cuius regio eius religio dei feudatari, vedere alcuni risultati su alcuni territori.

LA GENERAZIONE DELLE CRISI

Stefano Bonaccini è il favorito, appoggiato dall’ossatura dei superstiti presidenti di regione, ormai solo quattro su venti (lo stesso Bonaccini, il toscano Eugenio Giani, soprattutto il campano Vincenzo De Luca e il pugliese Michele Emiliano) e l’infrastruttura dei sindaci dei comuni capoluogo, da Roberto Gualtieri a Dario Nardella, ma non Beppe Sala, uno dei pochi vincenti del 12-13 febbraio con il risultato di Milano, che non è iscritto e non andrà a votare.

Si propone come un uomo di rottura con le correnti (che però non ci sono più) e di continuità con il passato remoto, vedi il manuale Cencelli delle citazioni dem nella mozione (prima citazione: Berlinguer. Seconda citazione: Moro. Terza citazione: Pertini) e con il passato prossimo, gli ultimi dieci anni. L’omaggio a Veltroni, inserito da Bonaccini nel pullman dei compagni di strada nel faccia a faccia televisivo su Sky. Il renzismo senza Renzi.

Ha alle spalle una solida esperienza di uomo di partito, ricordo molto bene un suo intervento alla direzione del Pd dell’ottobre 2012, quando il partito cambiò lo statuto per permettere all’allora sindaco di Firenze Matteo Renzi di partecipare alle primarie per la premiership del centrosinistra. In quel momento aveva 45 anni, era segretario regionale dell’Emilia Romagna e fedelissimo di Bersani: «Dobbiamo fare come Hollande, ha vinto le primarie con il 56 per cento e ha conquistato il partito e la Francia». Ovvero un percorso che portava il segretario dei socialisti francesi all’Eliseo, grazie all’elezione diretta del presidente.

In quelle primarie l’Emilia-Romagna votò per Bersani contro Renzi, 61 per cento contro il 39, un anno dopo, alle primarie per la segreteria del Pd il risultato si rovesciò e Renzi volò al 71 per cento.

L’inizio della carriera nazionale di Bonaccini, che in quell’anno divenne il padrone del partito emiliano, dopo aver eliminato il padre nobile Bersani nella drammatica giornata dei 101 franchi tiratori contro Romano Prodi al Quirinale.

Quella di Bonaccini si pone, senza dirlo, come una candidatura presidenziale, attrezzata a una futura riforma costituzionale nel senso dell’elezione diretta del capo dell’esecutivo, se mai Giorgia Meloni riuscirà davvero a farla. Tutti gli interventi del presidente emiliano ruotano su questo punto: oggi sto governando bene la mia regione, domani governerò bene il paese.

La buona amministrazione come solo orizzonte possibile, con il carico di pragmatismo e di lontananza da discussioni identitarie che questo comporta.

Questo profilo nel corso del dibattito congressuale si è fatto ancora più marcato, ma non risponde alla questione chiave del Pd oggi.

La lunga traversata nel deserto che attende il nuovo gruppo dirigente del partito, una intera legislatura di minoranza e di opposizione, in cui bisognerà ricucire il divario che si è fatto un dirupo tra le istituzioni e la società in questi dieci anni.

Perché nel frattempo Hollande ha finito il suo unico mandato presidenziale nel peggiore dei modi, il Ps francese è scomparso in pochissimi anni, nonostante il carico di buoni amministratori, di legami di primo piano con il mondo economico-finanziario e con il deep state, di intellettuali e di giornali. È stato spazzato via dal doppio attacco di Emmanuel Macron nel ruolo di partito sistema e di Jean-Luc Mélenchon sul versante sinistro.

Elly Schlein è la sfidante, rappresenta il ponte tra il Pd così com’è e il Pd come poteva essere, doveva essere e non è stato. Come una foto in controluce, ha visto crescere la sua candidatura in larga misura fuori dalle istituzioni, nonostante la sua esperienza di vice-presidente dell’Emilia-Romagna.

La sua mozione e le sue uscite pubbliche sono ricche di temi sconosciuti alla classe dirigente che l’ha preceduta, le prime file dei suoi incontri sono povere di amministratori e sguarnite di vecchie glorie, ricche di quella platea di non-invitati che nel 2012 costituì la benzina nel motore di Renzi candidato premier, autentico outsider di quella competizione contro il corpo del partito, tutto bersaniano, che ancora reggeva.

Ma Elly Schlein non è una rottamatrice. Guarda alle «generazioni che non ricordano la caduta del Muro di Berlino», si legge nella sua mozione, «che hanno subito una crisi dietro l’altra: quella finanziaria, la catastrofe ambientale, la pandemia e – oggi – le conseguenze sociali ed economiche della guerra».

La generazioni delle crisi: recessione, pandemia, ambiente, guerra. È portatrice di esperienze e di idee di sviluppo diverse sia dal riformismo modello terza via, tutto il reale è razionale, basta accettarlo, sia dalla vetustà solo in parte nobile in cui si attardano anche alcuni suoi sostenitori, come per esempio i fuoriusciti da Articolo uno, altri generali senza truppe.

È una candidatura che supera in un colpo gli anni Novanta ma anche gli anni Settanta dello scorso secolo, non le appartengono né Tony Blair né Enrico Berlinguer, mai citato nella sua mozione, il suo pantheon è tutto da costruire.

Quando un giornalista della stampa estera qualche giorno fa ha provato a definirla eco-socialista si è sottratta subito.

La sua identità è una incognita, così come le reali capacità di leadership, ma in queste settimane Elly Schlein ha dimostrato di essere una politica completa e non un prodotto di laboratorio, ha assunto un ruolo di catalizzatrice di istanze diverse che le consentirà di essere protagonista anche in caso di sconfitta, sempre che tutto non venga disperso alla prima curva.

Il successo nei circoli delle grandi città, Roma, Milano, Napoli, e in alcune città della Liguria o del Veneto, potenzialmente ripetibile nei gazebo domenica prossima, rivela di un consenso tra le fasce giovanili e nei ceti metropolitani che non significano solo la Ztl, ma la contemporaneità: la creatività, l’impresa, ma anche la solitudine, il disagio.

Senza questi mondi non si fa il Pd, il vincitore dovrà ricordarlo, anche il super annunciato Bonaccini. Così come dovrà ricordare che il Pd elegge un segretario che non sarà, soprattutto all’inizio, il candidato premier. Non succedeva da tempo, nonostante il turn over infernale di inquilini di largo del Nazareno.

Il segretario eletto dovrà ristrutturare il partito senza poter contare sul superbonus dell’imminenza di nuove elezioni o dello sfarinamento dell’attuale maggioranza.

Primum vivere, come ai tempi di Bettino Craxi nel 1976. E dunque: pensiero, organizzazione territoriale, squadra. E una leadership forte e possibilmente gentile. In contatto con il tempo che ci è dato da vivere. Poi, per l’alternativa di governo, servirà un federatore, in questa terra di nessuno. E ne riparleremo.