Giornalisti italiani sempre bloccati a Kiev
Ieri pomeriggio, nel palazzo presidenziale di Kyiv, si è svolto l’incontro tra la premier Giorgia Meloni e il presidente ucraino Volodymyr Zelensky. Alla conferenza stampa a margine del summit avremmo dovuto esserci anche noi perché ci eravamo accreditati.

Regolarmente- come tutti i giornalisti italiani presenti in città – tramite la nostra Ambasciata. Tuttavia abbiamo preferito disertare l’appuntamento, perché sapevamo che il nostro caso sarebbe stato probabilmente sollevato nel corso del colloquio. Solo a incontro ormai iniziato, verso metà pomeriggio, abbiamo scoperto che la nostra presenza non sarebbe comunque stata possibile. Questo, almeno, è quanto sarebbe stato riferito alle autorità italiane da quelle ucraine: nonostante per presenziare all’evento non fosse necessario esibire alcun accredito militare, e nonostante che l’elenco dei giornalisti accreditati fosse stato compilato dai nostri rappresentanti a Kyiv, qualora avessimo cercato di presentarci a palazzo saremmo stati bloccati. Non sappiamo cosa si siano detti Giorgia Meloni e Volodymyr Zelensky.

Quello che sappiamo è che ormai da sedici giorni i nostri accrediti militari sono stati sospesi. L’Sbu, il servizio di sicurezza di Kyiv, non ci ha ancora convocati per interrogarci – nonostante le continue sollecitazioni, nostre e della Farnesina. È dal 6 febbraio – da quando, cioè, eravamo di ritorno dal campo di battaglia di Bakhmut – che ci troviamo in queste condizioni. Non possiamo lavorare, e restiamo in attesa di una convocazione che non arriva mai. Nel frattempo, un altro reporter, Salvatore Garzillo, è stato respinto alla frontiera con la Polonia e ha ha ricevuto un ban che per cinque anni gli impedirà di entrare nel Paese – una sorte molto simile a quella che era toccata, nel febbraio del 2022, a un quarto collega, Lorenzo Giroffi.

Le nostre colpe? Nessuno ce le ha ancora comunicate. Nel frattempo, però, sono circolate sul nostro conto voci gravissime: «Ho appena parlato con i rappresentanti dei nostri servizi di sicurezza – ci ha scritto il 6 febbraio stesso un fixer col quale avremmo dovuto lavorare nei giorni successivi -. I vostri accrediti non sono più validi e siete sospettati di collaborare col nemico». L’unico punto in comune che abbiamo con Salvatore e Lorenzo è l’aver lavorato, all’indomani dei fatti di piazza Maidan, sia nei territori controllati dall’esercito di Kyiv che in quelli in mano alle milizie separatiste filo-russe. La cosa è più che nota, dal momento che tutti i nostri servizi sono ancora disponibili online.

C’è, ad esempio, una nostra inchiesta sulle miniere clandestine del Donbass, dove centinaia di lavoratori faticano in condizioni disumane, sei giorni su sette, per una paga mensile di circa duecento dollari. Le miniere illegali si chiamano “kopankas”, ed erano controllate – dice l’articolo – dall’allora presidente della repubblica separatista, Alekandr Zakharchenko, che speculava silenziosamente sul sudore del suo popolo. Oppure, ci sono le interviste ai «volontari» italiani che combattevano con i separatisti, quasi tutti di ideologia neofascista. Che questi e altri reportage possano essere stati partoriti da due filorussi è – per usare un eufemismo – perlomeno opinabile. Ma la questione, in fondo, non siamo noi quattro. Se passerà questo principio – cioè che chiunque sia stato «dall’altra parte», cercando di raccontare questo conflitto a tuttotondo, in modo critico e senza sventolare nessuna bandiera, debba essere automaticamente considerato un «nemico» – allora il rischio è che un domani, al netto dei molti colleghi coraggiosi e liberi che continuano a lavorare in Ucraina, non ci saranno più reportage, ma solo comunicati stampa e veline. A Mosca già funziona così. E a Kyiv?

Rivivi l’incontro con i due giornalisti nel Collettivo Digitale