L’Italia è il paese che io amo, si affacciò dal balcone del suo regno, il teleschermo, come un sogno, come un incubo, con gli effetti speciali, la calza sulla telecamera, che faceva tepore con il suo effetto seppiato, un tripudio di cornici e argenti, lo sguardo fisso sulla telecamera, il gobbo, le mani inutilmente adagiate sui fogli bianchi, l’io e l’ego espanso a piene mani, il sorriso incollato.

«Non un centimetro lasciato al caso o al buon gusto. Alle spalle la scrivania linda di chi non lavora, si intuisce la libreria ordinata di chi non legge. Ovunque, la luccicanza del vuoto», scrissero Curzio Maltese, Massimo Gramellini e Pino Corrias in quel Colpo grosso 1994 scritto a caldo che resta a tutt’oggi il racconto più avvincente e più divertente della discesa in campo.

La conosciamo tutti a memoria la poesia della discesa in campo. 26  gennaio 1994, trent’anni fa, con la videocassetta spedita a tutti i tg, ma il primo a farlo vedere alle 17.30 fu Emilio Fede su Rete 4, e chissà se sarà ricordato anche questo, Silvio Berlusconi entrò in politica e nacque Forza Italia.

All’epoca apparve una rottura comunicativa, invece era una frattura politica, un passaggio di poteri, un cambio di paradigma, la vera riforma costituzionale, senza referendum e senza articoli 138, un faglia che non si è mai chiusa.

I partiti nascevano per via parlamentare, da notabili raggruppati per motivi di interesse, o erano espressione della società, il movimento operaio e il movimento cattolico di inizio Novecento, oppure da leadership indiscusse e costruite negli anni tipo quella gollista, avevano insegnato fino a quel momento i manuali di politica, compreso quello del professor Domenico Fisichella (destinato a diventare ministro con Berlusconi), su cui sbattevamo la testa noi studenti di scienze politiche all’inizio degli anni Novanta.

Ma mai nella storia un partito era nato da una telecamera, da una inquadratura. Quello che accadeva era un unicum, dopo due anni in cui il paesaggio politico italiano era stato raso al suolo.

Crollavano i partiti della Prima repubblica, ma non venivano sostituiti da altre formazioni. Per cambiare nome e parzialmente simbolo il Pci aveva impiegato più di un anno, in un clima di tragedia che rischiava di sfumare nella farsa.

Il gesto di farsi avanti di «uno principe, uno principe nuovo», machiavellicamente, simulava un afflato romantico, mi candido e lascio tutto per salvare il paese, e fu valutato dagli amici una «lucida follia» del visionario, dai nemici e dagli avversari un’anomalia.

Incarnerà per più di venti anni la potenza evocativa dell’anno zero: vincere le elezioni dal nulla, con un partito che fino a due mesi prima del voto non esisteva, mentre per più di quindici anni, per esempio, il Psi di Craxi esultava per l’onda lunga, ma era solo la conquista di mezzo punto di percentuale, qualche goccia di consenso nell’oceano elettorale.

NON ERA UNA PARENTESI

Il berlusconismo politico non era però una parentesi, non era una trovata di marketing pubblicitario. Era qualcosa che covava da tempo nella società italiana, almeno da un decennio, dall’inizio degli anni Ottanta, pronto a eruttare in superficie.

L’Italia della doppia bisaccia, dell’individualismo sfrenato, ma con la protezione dello stato, che ispirò tutte le leggi ad personam. L’occasione fu il biennio di Mani Pulite, ma l’operazione era cominciata prima, con il monitoraggio dell’elettorato, il lancio della nuova leadership.

Nel 1994 apparve una guerra-lampo, ma era tutto pronto e calcolato da tempo, nei dettagli. «Vogliamo realizzare uno special televisivo sul giro d’Italia berlusconiano, te la senti? Oppure preferisci tornare in Unione Sovietica per i tuoi reportages?», scrive Gigi Moncalvo nella prima biografia del Cavaliere, l’introvabile Berlusconi in concert, pubblicato dalla casa editrice londinese Otium.

Ma non era il 1994, era il 1989, c’era ancora l’Urss, e già Dell’Utri pianificava il culto della personalità dell’uomo di Arcore. Il partito arrivò dopo, o mai.

«Finita una riunione Berlusconi mi disse: sono un genio perché ho chiamato un partito come l’urlo della Nazionale, il simbolo sembra un detersivo, i miei li chiamerò azzurri», raccontò Mauro Terlizzi, uno dei primi consulenti, poi sparito, al pari del sondaggista Gianni Pilo.

Forza Italia era un urlo da stadio, un comitato elettorale, una corte del nuovo monarca, un partito-azienda, con gli uomini di Publitalia, Dell’Utri, Valducci, Miccichè, Galan, che si sovrapponevano alla struttura organizzativa, ma nei piani del suo Fondatore non sarebbe mai dovuto diventare un partito.

Una immagine che portava con sé, inesorabilmente, divisioni, gelosie, litigi, ripicche, riunioni in stanze fumose. Partito era divisione e il berlusconismo voleva essere tutto. Bisognava tornare al materiale, brutale esercizio del potere, che non si conta nei congressi ma scavalca le regole che valgono per tutti gli altri, ma non per lui. Fece scuola. ,

Più ancora che nel 2016, è quello che si sta vedendo in America con le primarie repubblicane 2024, sono due mondi paralleli, quello di DeSantis e Haley che fanno i confronti televisivi e le primarie e quello di Trump che si muove sul rapporto diretto con l’elettorato e il popolo.

Così in Italia, la riforma costituzionale non è mai stata approvata, ma intanto il modello berlusconiano ha conquistato l’egemonia e sono diventati tutti partiti del Capo, cominciando dal competitore eletto perché considerato il figlio prediletto del vecchio partito, Massimo D’Alema, e che invece si era messo in testa di cambiarlo su modello di Forza Italia.

«Lo stato del Pds è desolante. Il Pds, inteso come ceto politico, è un cane morto», scriveranno nel luglio 1997 Claudio Velardi e Fabrizio Rondolino, in un documento riservato pubblicato anni dopo da Alessandra Sardoni.

E dunque non restava che il leader, lo Staff che sostituisce direzioni, segreterie, direzioni, uffici politici, la comunicazione al posto dell’organizzazione. Per non parlare di Matteo Renzi, Matteo Salvini, Giorgia Meloni che sono anche generazionalmente figli degli anni Ottanta berlusconiani.

SUPERSTITI

Il gioco delle date, le celebrazioni, gli anniversari di questi giorni permette di affiancare Bettino Craxi, volato ad Hammamet in quelle settimane per mai più tornare, la fine della Dc e la sua spaccatura tra cattolici democratici e cattolici moderati, anche il fantasma di Francesco Cossiga è tornato ad agitarsi, con il riordino delle sue carte e del suo archivio, magnificamente presentato alla Camera da Giuliano Ferrara, che del berlusconismo delle origini è stato spirito creativo. Manca all’appello la festeggiata Forza Italia, il partito che non c’era e che forse non sarebbe mai dovuto esistere.

C’è una storia di Forza Italia, ma non è mai stata raccontata dai suoi protagonisti. E non è stata raccontata la storia di quel pezzo di Italia che si identificò con la discesa in campo, l’autobiografia di una nazione che si percepiva come nuova, ma era quella di sempre.

Il partito berlusconiano non è defunto, si potrebbe dire che sia sopravvissuto a Berlusconi, è al governo, con numerosi posti di sottopotere. Ma nonostante i tentativi di Antonio Tajani, oggi assomiglia ai superstiti del pentapartito di trent’anni fa di fronte all’assalto dell’armata berlusconiana.

I voti azzurri sono corteggiati da ogni lato, dal centro, dalla destra, perfino un pezzo del Pd dovrebbe farsi avanti, secondo qualche suggeritore strampalato, o interessato.

Ma Forza Italia sembra destinata a seguire il destino di tutti i partiti che furono nazionali, maggioritari, i partiti della Nazione, i partiti di tutti gli italiani, che hanno rappresentato il tutto e non possono riconvertirsi in parte.

Non è mai esistita una identità democristiana riproducibile su scala ridotta, è quello che ha condannato le varie sigle della Seconda Repubblica di derivazione scudocrociata a imitare l’originale senza riuscirci, lo stesso destino hanno incontrato le rifondazioni comuniste o socialiste che hanno trasformato in piccole sette quelle che furono una grande storia collettiva.

Così non esiste il partitino del berlusconismo. Chi provasse a farlo farebbe la fine dei sosia di Elvis Presley che si affollavano a Memphis, dove era nato l’originale. Esiste un elettorato non ereditato da nessuno, su cui la competizione è aperta, è questa nel breve la partita di Giorgia Meloni. Mentre le l’eredità politica è svanita in dissolvenza.

Lasciando il posto all’illusione dell’eterno presente, che è sempre stato il tempo prediletto del Cavaliere. Quel video di trent’anni fa è fissato una volta per sempre nella nostra memoria. Ma a rivederlo nello specchio l’immagine appare invecchiata, come il protagonista che non c’è più, il paese che non ha visto poi i frutti di tanto amore. E tutti noi.