Per celebrare l’uscita del numero trecento di «Italia contemporanea», la pubblicazione quadrimestrale dell’Istituto Nazionale Ferruccio Parri. Rete degli istituti per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea, la prestigiosa rivista ha scelto di attingere ai propri archivi per ripercorrere attraverso una serie di articoli storici accompagnati da nuove e inedite note di commento la lunga e significativa vicenda di cui è stata fin qui protagonista. Di seguito proponiamo un ampio stralcio dal testo redatto da Massimo Raffaeli a commento dell’articolo di Italo Calvino, «La letteratura italiana sulla Resistenza», apparso nel 1949 nel primo numero della rivista, all’epoca denominata «Il movimento di Liberazione in Italia. Rassegna bimestrale di studi e di documenti».

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Nel luglio del 1949, inaugurando la rassegna intitolata La letteratura italiana sulla Resistenza, l’ex partigiano Italo Calvino muove dalla premessa secondo cui se l’epopea resistenziale non ha ancora dato l’Opera (o comunque un testo che assurga, per complessità strutturale e spessore letterario, al rango dell’epica) ha comunque lasciato un segno profondo in quanti se ne sono fatti primi testimoni.

MOLTO NETTA, e anzi preventiva, è la sua distinzione che localizza fra i memorialisti alcuni esiti di netto rilievo ed indica fra gli altri, tutti quanti editi nel 1945, Banditi di Pietro Chiodi, Guerriglia nei Castelli romani di Pino Levi Cavaglione, Classe 1912 (dal 1975 riedito come A conquistare la rossa primavera) di Davide Lajolo unitamente a Il mio granello di sabbia di Luciano Bolis, atroce diagramma di tortura e detenzione, che è invece del 1946. Il richiamo nell’incipit a Francesco De Sanctis e a un’idea di letteratura «nazionale», perché capace di parlare e di saldarsi all’esperienza delle «grandi masse nazionali attive», si lega a quello in clausola che individua nelle Lettere dal carcere di Gramsci (uscite solo due anni prima da Einaudi che viene intanto pubblicandone i Quaderni per nuclei tematici e nella cura ufficiosa di Felice Platone e Palmiro Togliatti) l’esempio più magnanimo dell’«uomo nuovo» nato dalla Resistenza e insieme la predella dell’Opera a venire.

C’è ancora in Calvino un sentore di crocianesimo nel fatto di confinare i memoriali della Resistenza fra le opere documentarie separandole nettamente sia dalla poesia in versi sia dalla forma-racconto di cui pure avvalora alcuni risultati: fra i poeti, su tutti un transfuga dall’ermetismo, l’Alfonso Gatto de Il capo sulla neve (1947), lo stesso Quasimodo, appena trapassato alla retorica civile di Col piede straniero sopra il cuore (1946: qui Calvino ha una svista e scrive sul cuore), unitamente ad alcuni nomi non ancora di senso comune, quali Giorgio Caproni, il giovane Franco Fortini di Foglio di via (1946) e Sergio Solmi che al momento è noto esclusivamente come critico letterario; fra gli scrittori di racconti, più cauto è da parte di Calvino il riconoscimento dei giovani e però lungimirante nel complesso: si pensi agli esordi tra i numerosi altri di Marcello Venturi, Angelo Del Boca, Silvio Micheli, Stefano Terra, Oreste del Buono e specialmente, già bocciato da Einaudi, il libro di Primo Levi pubblicato da De Silva nel 1947 grazie a Franco Antonicelli, Se questo è un uomo, che qui Calvino tratta a latere della rassegna ma definisce, con parole davvero presaghe, «un libro che per sobrietà di linguaggio, potenza d’immagini e acutezza psicologica è davvero insuperabile».

INFINE, se ampio è il credito concesso al già celeberrimo memoriale di Carlo Levi, Cristo si è fermato a Eboli (1945), più articolato appare il giudizio su due autori che gli sono compagni di via, l’uno, Cesare Pavese, suo mallevadore e primo sponsor da Einaudi, l’altro, Elio Vittorini (reduce dall’avventura di Politecnico, nella cui ragione sociale è iscritta la letteratura di esperienza e/o testimonianza) destinato a diventare suo interlocutore e deuteragonista presso la casa editrice di via Biancamano: ma se è esplicito e netto il suo apprezzamento per La casa in collina (racconto incluso nel complessivo Prima che il gallo canti, 1948), che è il tracciato di una formazione incompiuta, lo specchio di un diniego e di una generale impasse (dove «La Storia, prima ancora che azione e sentimenti, diventa paesaggio»), molto più sfumato e in sostanza limitativo è il giudizio su Uomini e no (1945) e sul personaggio portavoce, Enne 2, che per Calvino non attingerebbe l’«autobiografia sincera, ossia distaccata e partecipe insieme» ma soltanto una «esaltazione romantica, con tutta la sua disperata (e libresca e decadente) corsa alla morte», tanto da fargli apparire Uomini e no un evidente passo indietro rispetto a Conversazione in Sicilia (1941) cioè il libro degli astratti furori che tutta una generazione aveva atteso presagendo la fine della dittatura.

Più sintetico e generico è il riferimento ai libri di testimonianza antifascista, con qualche plauso (agli scritti autobiografici di Emilio Lussu così come alle Cronache di poveri amanti, 1947, di Vasco Pratolini, «un libro forte e sincero») e qualche insofferenza, anche nel rilievo positivo, che traspare nei giudizi formulati en passant su alcuni scrittori antifascisti però a lungo acclimatati nel regime quali Guido Piovene, Arrigo Benedetti, Vitaliano Brancati e lo stesso Alberto Moravia, per non parlare di Indro Montanelli e di Qui non riposano (1945) poi riproposto a cadenza da un ambiguo e indulgente revisionismo ma qui opportunamente battezzato «la Iliade del qualunquismo».

INSOMMA, anche a una lettura in retrospettiva, la rassegna di Calvino appare limpida negli assunti (assenza dell’Opera della Resistenza, con effetti di parziale ricaduta in molteplici opere) e nel complesso esaustiva a tale altezza cronologica come peraltro attesta quello che a distanza di decenni, e all’interno di una produzione critica tutt’altro che ingente, rimane in materia lo studio fondamentale a firma di Giovanni Falaschi, La Resistenza armata nella narrativa italiana (1976). Va da sé che scrivendo la propria rassegna Calvino non può ancora menzionare Agnese va a morire di Renata Viganò, racconto virato al femminile e grande cantata popolare che uscirà da Einaudi solo nel dicembre del 1949 con una scheda redazionale non firmata e però riferibile a Calvino stesso. Semmai spicca ne La letteratura italiana sulla Resistenza la esclusiva e deliberata omissione di un esordio recente e di straordinaria qualità, il romanzo intitolato Il sentiero dei nidi di ragno (1947).

Appena due anni dopo la pubblicazione del romanzo e all’atto di redigere la sua rassegna, Calvino si è congedato dal lavoro a l’Unità e si appresta ad entrare a tempo pieno da Einaudi. Il 1949 è peraltro l’anno in cui pubblica i racconti di Ultimo viene il corvo dove il testo eponimo sviluppa in istantanea, fissandolo con allegorica esattezza, il gesto che in sé caratterizza la guerra, l’atto di offendere e di uccidere o insomma di negare con glaciale indifferenza l’umanità del nemico. Quanto al Sentiero, introducendone la ristampa del 1964 con una Prefazione dell’autore, dirà di avere affrontato la propria materia «non di netto ma di scorcio» per non lasciarsi mettere in soggezione e ciò significa, in altri termini, l’avere rinunciato a priori al tutto tondo dell’epica (all’adesione senza residui ad un mondo e al relativo codice di valori) optando viceversa per una dialettica propriamente romanzesca e perciò di tensione dialettica fra il protagonista (non necessariamente suo diretto portavoce) e lo spazio ambientale e sociale in cui egli agisce.

AL RIGUARDO, dirà Cesare Cases che non solo il Sentiero ma la genesi della letteratura di Calvino vive del rapporto e della perpetua tensione fra «la solitudine nella distanza e la comunità necessaria ma disgustosamente vicina e infìda». L’avere optato per una creatura prepubere, l’insolente e imprendibile Pin, personaggio da antica lingèra, già dice di una consapevole distanza dal senso comune che allora si diceva «neorealista» e dalla retorica di ogni «impegno» che facesse della Resistenza un pretesto oratorio ovvero propagandistico prescindendo dalla ricchezza e dalla complessità del testo come tale: «Questo romanzo è il primo che ho scritto. Come posso definirlo, ora, a riesaminarlo tanti anni dopo?. Posso definirlo un esempio di letteratura impegnata nel senso più ricco e pieno della parola. Oggi, in genere, quando si parla di «letteratura impegnata» ci se ne fa un’idea sbagliata, come d’una letteratura che serve da illustrazione a una tesi già definita a priori, indipendentemente dall’espressione poetica. Invece, quello che si chiamava l’engagement, l’impegno può saltar fuori a tutti i livelli; qui vuole innanzitutto essere immagini e parola, scatto, piglio, stile, sprezzatura, sfida».

L’Istituto Parri e il Novecento

Nata nel 1949 con il nome di «Il Movimento di liberazione in Italia. Rassegna bimestrale di studi e documenti» per iniziativa di un gruppo di politici e intellettuali riuniti intorno alla figura di Ferruccio Parri, che, pochi mesi prima, aveva costituito a Milano l’Istituto nazionale per la storia del movimento di Liberazione in Italia, la rivista nel 1974 prese il nome di «Italia contemporanea», diventando la prima rivista scientifica di storia contemporanea interamente dedicata allo studio del XX secolo. Il numero 300 ripercorre questa storia, con una selezione di alcuni articoli tra le migliaia pubblicati in questi decenni. L’obiettivo è di individuare e analizzare le linee interpretative emerse negli anni.

Info: www.reteparri.it/pubblicazioni/italia-contemporanea/