Ernest Hemingway guardava i tori e ci vedeva qualcosa che la maggior parte dei suoi lettori non sarebbe più in grado di cogliere. La grazia, diceva, nel dolore della morte resa esemplare; nel paradosso – quello che noi oggi intendiamo come un paradosso – di un dolore spettacolare. Il torero è al contempo un eroe e un antieroe, ossessionato dal suo più grande terrore al punto di non poter fare a meno di sfidarlo, sfiorarlo, lasciarsi toccare e godere del primordiale impulso di volerne uscire vincitore. Vincere la morte, ma anche venire avvinti dalla consapevolezza della sua persistenza.

«Il torero ha sempre paura», scrive Matteo Nucci, aficionado della corrida e autore di Sognava i leoni, un libro di strepitosa potenza che torna a guardare Hemingway attraverso la sua scrittura e si propone, riuscendoci, di abbandonare l’essere umano a sé stesso. Di superare l’ostacolo granitico dell’uomo di roccia per il quale ha cercato di farsi passare. «Il torero ha sempre paura» di fronte al toro. E così lo scrittore, ossessionato dall’idea di poter fallire, di sbagliare, di smettere di saper scrivere.

È sano avere paura?
«La paura di fallire è sacrosanta. Anzi, fondamentale. È altrettanto sano affrontare questa paura: guardarla negli occhi e andarle incontro. Quando la si prende di petto, possono succedere due cose: si può fallire o si può trionfare. Se si manca l’obbiettivo e si sfiora il trionfo senza afferrarlo, non importa. È un’esperienza della quale si può fare tesoro. Prendiamo ad esempio Di là del fiume tra gli alberi, che è un libro veramente molto brutto…».

Un esperimento fallito?
«Decisamente. Nasceva da un’urgenza sbagliata, da un’ansia di rivincita mista alla nostalgia del passato in un momento molto difficile. Senza quello, però, Hemingway non avrebbe scritto Il vecchio e il mare. Lo stesso si può dire di Avere e non avere, altro esperimento fallito, che però ha condotto a una nuova consapevolezza, a una nuova spinta verso la scrittura».

Hemingway, e questo è un tratto che appartiene tanto allo scrittore quando all’uomo, viveva la prospettiva del fallimento con dolorosa incertezza. Sentirsi criticato, colpito dove non aveva difese, lontano dalla caccia grossa, dalla pesca d’altura, dal pugilato, nel centro esatto della scrittura, dove si sentiva – pur ammettendolo raramente – più vulnerabile, gli provocava una specie di dolore fisico, via via sempre meno sopportabile. E la fama, quello straordinario salto dall’anonimato al riconoscimento globale, non faceva che acuire questo dolore.

Soffriva?
«Eccome. Non è facile immaginare cosa dovesse essere sentirsi improvvisamente così al centro dell’attenzione. Ha dato il suo meglio negli anni di Parigi, quando era povero e libero, e poteva dedicarsi completamente alla sua aspirazione più alta, la scrittura. Da quella posizione, il successo è inimmaginabile; è presumibile, magari, ma la vera portata dell’onda di notorietà che lo ha colto appena dopo la pubblicazione di Fiesta era inaspettata per il giovane scrittore. Prefissarsi di gestirla bene, impossibile».

E però la storia lo ha voluto molto sicuro di sé…
«Era uno spirito agonistico, non c’è dubbio. Qualsiasi impresa nella quale si imbarcasse la perseguiva per primeggiare. Provava un continuo sentimento di sfida nei confronti dei suoi contemporanei. Quando poi in effetti vinceva, però, veniva colto dall’amarezza. Era impossibile godersi un momento di trionfo».

Anche dopo il Nobel?
«Soprattutto dopo il Nobel. A quel punto era disgustato dall’attenzione, e anche provato fisicamente. Voleva solo chiudersi nella sua tenuta cubana, la Finca Vigia, e scrivere. Cosa che, però, gli risultava difficile. Tutti gli esseri umani aspirano al riconoscimento. Capita che quando ci si trovi di fronte a questo riconoscimento ci si accorga che è del tutto vacuo. Che l’unica riuscita è trovare un contatto con il proprio intimo più profondo, scrivere davvero».

Come accade per l’Harry Walden di Le nevi del Kilimangiaro, ridotto a letto da una cancrena e costretto ad assistere impotente al naufragio di un matrimonio, nel corso della sua vita Hemingway si è trovato all’angolo diverse volte. Le sue reazioni non sono mai state composte, ha litigato con amici, critici, redattori e editor, ha inseguito e perso le relazioni, ha fatto la voce grossa ogni volta che sarebbe stato preferibile tacere. La sua soluzione principale, però, è stata sempre la stessa: rifugiarsi nella scrittura. Tornare ai fondamentali, ripetersi che c’è un ordine nel lavoro e che rispettando quell’ordine il testo non può che fluire».

Era terapeutico?
«Era la sua unica salvezza. L’unico modo che aveva per combattere veramente i suoi demoni. Infatti, quando non è stato in grado di scrivere, perché preso da altri fatti o perché assediato dal declino fisico, ha dato del suo peggio anche come essere umano».

La fonte di tutta la sua ansia…
«Indubbiamente. Quando Hemingway aveva finito di lavorare a un manoscritto, insisteva perché gli amici lo leggessero e aveva l’abitudine di fissarli mentre lo facevano: non poteva sopportare di non sapere. Se poi questi muovevano delle critiche si arrabbiava moltissimo. Non perché pretendeva che gli mentissero, ma perché non poteva sopportare quell’incertezza ciclica che lo costringeva a rifare. L’evidenza dell’imperfezione».

Stranamente, per la memoria dell’Hemingway essere umano – oggi difficilissimo, se non impossibile da accettare nel suo machismo ostentato, nelle sue passioni venatorie, nelle sue idee radicali – a persistere nel ricordo sono i cinque anni che vanno dal 1941 al 1946, segnati dalla totale assenza di scrittura, dalle delusioni e dalla massima espressione delle sue doti cialtronesche, che lo condannano a un’immagine lontana dal genio e vicina all’imperfezione.

Quanto è importante rileggerlo dimenticandosi della leggenda?
«Fondamentale. Il suo personaggio non ha mai fatto bene a nessuno, né a lui, né ai lettori. Hemingway vive nella sua scrittura, che deve tutto alla vita, ed è un’analisi, un’ammissione di colpa, non una celebrazione dell’uomo che c’era dietro. Per comprenderlo davvero occorre leggere con attenzione, entrare nel particolare e non fermarsi alla superficialità dei gesti: così facendo si rischierebbe di isolare una figura bidimensionale, astrarla dal tempo e superficializzare una mente geniale e complessa».

Bisogna restituirgli la fragilità?
«In un certo senso. La sua stessa morte, che un tempo io vedevo come un gesto eroico, si è poi dimostrata un atto di fragilità, un’espressione tragica di una malattia che peraltro oggi si sarebbe potuta curare. La morte di Hemingway (si sparò un colpo di fucile in testa, ndr)non è un compimento, ma un grido di impotenza».

Vive nella sua scrittura?
«Penso che le grandi opere siano eterne e che tutto sia destinato a ripetersi facendo perno su momenti fondamentali della storia. La letteratura non fa eccezione, dobbiamo tutto ai classici e ai classici torneremo sempre. Chi utilizza le regole hemingwayane di sottrazione, omissione e autenticità, se ci mette l’anima, non può sbagliare».

È un buon auspicio, per la letteratura?
«È destino. E il destino va sempre come deve andare».

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