Il primo numero della Repubblica fondata da Eugenio Scalfari, morto giovedì, si apriva con un editoriale intitolato «è vuoto il palazzo del potere». Quel palazzo pare oggi molto più vuoto che nel 1976: non ci sono più i partiti, ridotti a gruppi parlamentari di cui nessuno riesce più a indovinare una qualche corrispondenza con la società che dovrebbero rappresentare.

Non si sono più le ideologie, da tempo, ma neppure le idee. Si è chiusa anche la fase della policy nella quale si pensava di trasformare il governo in un esercizio di analisi costi e benefici con l’obiettivo di massimizzare il benessere collettivo.

La scorciatoia tecnocratica ed europeista, che aveva espresso i risultati migliori con Carlo Azeglio Ciampi e Mario Monti, non è più percorribile. Comunque finisca l’agonia di questo governo, è chiaro a tutti che Mario Draghi non ha  ottenuto risultati comparabili a quelli dei suoi predecessori “tecnici”.

La politica, nel senso di politics, competizione per il potere come bene ultimo, si è mangiata tutto il resto: prima con i governi del cinismo, gialloverdi e giallorossi, poi con il ribaltone da Giuseppe Conte a Draghi, infine con l’elezione al Quirinale mancata da Draghi e il suo affondamento successivo.

Due episodi della stessa storia, che è quella di una classe politica autoreferenziale che ha dimostrato di saper digerire anche uno come l’ex presidente della Bce. Draghi avrebbe dovuto concentrare tutte le riforme – incluse quelle più drastiche e impopolari, dal catasto alla concorrenza – nelle prime settimane, quando i partiti non avrebbero osato ribellarsi al Quirinale e a un premier di quella reputazione.

Ma c’era la corsa per il Colle, Draghi ha pensato che fosse quella la priorità o comunque che non fosse il momento per dividere e scontentare.

LE COLPE DEI PARTITI

Gli errori di Draghi non assolvono i partiti, tutti, nessuno escluso: il Pd, sempre pronto a ogni compromesso, così impalpabile da spostare a destra anche il baricentro dei governi di cui fa parte, i Cinque stelle di Conte, trasformisti nell’animo e privi di ogni visione strategica, ma anche i Cinque stelle di Luigi Di Maio, aspiranti politici di professione che per salvarsi distruggono il governo che volevano sostenere.

E poi il centrodestra tutto, rapace sia nel prendere quello che può quando può, così come nell’abbandonare la carcassa spolpata dell’esecutivo senza rimorso alcuno quando non ne resta niente.

Echeggia, in quel palazzo del potere deserto, il sussurro di Mattarella, confermato per salvare ancora una volta il poco salvabile rimasto.

Siamo appesi alla sua creatività, che speriamo non passi per ritorni al passato, alla Giuliano Amato.

Se non si può avere Draghi, meglio un onesto amministratore di condominio senza ambizioni e legami. Per traghettare il paese verso elezioni dalle quali, tanto, non potrà uscire molto di buono.