A dieci anni dalla Palma d’Oro Elio Germano trionfa ai David di Donatello come miglior attore non protagonista per Palazzina Laf di Michele Riondino, a sua volta premiato come miglior protagonista. Lo ha voluto subito con sé sul palco: «Condivido questo premio con Michele, che voleva fare questo ruolo, ma io mi sono rifiutato di interpretare il protagonista. Non possiamo fare a meno di fare delle lotte insieme, questo film è stato un po’ una lotta, andando in giro per l’Italia abbiamo capito grazie all’incontro con il pubblico che il film è molto attuale. Parla di lavoro, una cosa che sembra dimenticata dal nostro cinema e che invece ci riguarda tantissimo, in tanti ci hanno raccontato le loro palazzine Laf», ha detto l’attore durante la cerimonia. Poi ha parlato di Taranto: «È una città meravigliosa violentata dal profitto altrui: i film non cambiano le cose, ma magari aiutano a farcele guardare».

Un nuovo premio si aggiunge alla sua collezione, dove li tiene?
«Ammassati tutti dentro un armadio».

Perché nasconderli?
«È un armadio vetrato, a dire il vero, ogni premio è nella sua scatola. A parte i David, che danno senza confezione. Ma insomma non è che ci tenga a esporli».

Resta qualcosa della Palma d’oro che ai tempi le rubarono?

«C’è tutto l’involucro. Rubarono solo l’oro, senza sapere che tutto il resto vale di più. A me poi basta che ci sia scritto da qualche parte, non sono attaccato all’oggetto fisico».

Che ricordo ha di quella sua vittoria clamorosa in un contesto internazionale?
«Fu tutto immediato, non me lo aspettavo in nessun modo. Ricordo la telefonata: “Tra un’ora devi essere a Ciampino”. L’aereo privato da 20 posti che mi prese e mi portò a Cannes. Non sapevamo se avessi vinto io o il film, quando hanno pronunciato il mio nome sul palco è stata una sorpresa. Ricordo bene quanto fossi zuppo, era come se mi avessero tuffato in piscina, avevo la camicia bianca attaccata addosso. Poi la sera il mio telefonino continuava a suonare, mi arrivarono 300 messaggi».

Con Javier Bardem, con cui divise la Palma ex aequo, come andò?
«Non avevamo tanto modo di parlare, facevamo interviste uno da una parte e uno dall’altra. Giusto subito dopo il premio, dietro le quinte, abbiamo scambiato due chiacchiere, insieme a Benicio Del Toro e Gael Garcia Bernal, tutti ispanici con cui mi sentivo a mio agio a parlare».

Ma parliamo dei fallimenti, quali sono stati i momenti lavorativamente più difficili?
«Non quelli in cui ho espresso la mia opinione, ma quando non ho voluto accettare delle condizioni. Lì mi sono state chiuse delle porte, anche se non lo sa nessuno».

A differenza di molti colleghi, lei non si tira indietro se c’è da parlare di politica, anche alle premiazioni.
«Nella Costituzione c’è scritto che i cittadini sono invitati a partecipare alla vita pubblica, quindi a fare politica. E si fa sempre, anche quando si pubblicizza il non interessarsi di politica come fosse una cosa positiva».

Dopo Palazzina Laf è tornato in sala con Confidenza di Daniele Luchetti, un film su segreti e ossessioni. Non è la prima volta che li porta sullo schermo…
«Come attore mi preme indagare le cose che ci riguardano tutti. Parto dal principio che siamo tutti uguali, tutti ascoltiamo o meno le pulsioni, le controlliamo o le assecondiamo. Mi interessa l’introspezione come momento di analisi, non di me stesso, ma dell’umanità. Mettersi nei panni di chi è ossessionato ci aiuta a riconoscere che tutti siamo fatti di tutto, nel bene e nel male».

Natalie Portman definisce il vostro un mestiere di “allenamento all’empatia”. Che ne pensa?
«Concordo con lei, riconoscendo come dicevo che tutti siamo fatti di luci e ombre, possiamo comprendere anche quando le cose accadono agli altri e non a noi, e anziché giudicarli fare un esercizio di empatia verso di loro».

Sfatiamo il luogo comune dell’attore narciso, c’è chi punta all’empatia.
«Ognuno fa questo mestiere come crede e con le sue modalità. Io mi guardo allo specchio meno possibile, non amo rivedermi sullo schermo, né sugli specchi moltiplicati che sono i nostri cellulari o i social, che non uso e di cui non ne sento la mancanza».

Non si sente tagliato fuori?
«Lo sono, e per fortuna anche. Il problema è capire se il mondo vero sia là dentro o altrove. Esserne fuori mi dà la possibilità di cogliere cose di cui stando all’interno probabilmente non ci si rende conto. Stiamo sempre parlando di un miliardario privato straniero che ha inventato un gioco su cui stanno tutti, tutto il giorno. Curioso, data la paura degli stranieri che si ha in questo Paese, ma forse i miliardari non fanno altrettanta paura».

Prossimamente la vedremo nel film Iddu, nei panni di Matteo Messina Denaro. Non teme che la faccia del boss possa poi essere accostata alla sua? Avvenne per Leopardi dopo Il giovane favoloso.
«Vorrebbe dire che il film è andato molto bene! Come interprete sono totalmente al servizio del regista, il mio approccio ai personaggi sta nel ritenere che conoscere le cose, anche le più oscure, e riconoscerle anzi tutto dentro di sé, permetta di fare un passo avanti nella consapevolezza».

Le viene mai il pensiero di passare alla regia?
«Mi basta farla a teatro e nelle opere VR. Per fare cinema servono troppi soldi e troppe persone da dirigere, io mi trovo bene a fare le mie cose: girando con pochi soldi sono libero di fare quello che voglio».

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