La bozza sul premierato è presentata come una riforma soft, in grado di rafforzare il governo senza stravolgere gli equilibri costituzionali. È invece pericolosa, contiene un falso ed esprime la confusione della maggioranza in materia di forme di governo e sistema costituzionale

L’aspetto più temibile è legato alla previsione dell’elezione contestuale del presidente del Consiglio e delle camere, assicurando una maggioranza pari al 55% dei seggi da assegnare ai candidati e alle liste collegati al presidente eletto. In un colpo solo si garantirebbe ad una minoranza del paese di conquistare, grazie ad una distorsione elettorale, tanto il governo quanto il parlamento.

Si tratterebbe di un premierato assoluto che – pur passando per una finta fiducia iniziale – ci allontanerebbe sia dalle forme di governo parlamentare, dove sono le camere a dare la fiducia reale al governo, sia da quelle presidenziali, dove gli equilibri sono garantiti da una netta separazione dei poteri.

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Meloni fuorionda è più potabile dell’originaleIn effetti, tanto negli Stati uniti, quanto in Francia è proprio la possibilità che il legislativo abbiano maggioranze politiche diverse da quella presidenziale (nelle forme delle cosiddette «anatra zoppa» ovvero «coabitazione») che evita la torsione autoritaria del sistema. Lo dimostrano gli ordinamenti dove tale possibilità è esclusa in via di principio o di fatto (come in Turchia o in Russia) e proprio l’elezione diretta del capo del governo è all’origine della natura totalitaria del regime politico.

Si afferma che in fondo non è altro che la trasposizione a livello nazionale del sistema comunale e regionale. Tralasciando ogni giudizio o critica su tali modelli, mi limito ad osservare che in tal modo si mostra di non saper distinguere la responsabilità e il complesso sistema di controlli politici e amministrativi che gravano sugli amministratori locali dal potere e la relativa responsabilità di determinazione delle politiche nazionali e internazionali dei capi di governo. Asservire il parlamento al governo tramite una forzata omogeneità di maggioranza politica vuol dire concentrare il potere sovrano nelle mani di un eletto del popolo. L’anticamera dell’autocrazia. Un pericolo che non ci è permesso di correre.

Ed è qui che si innesta la storia di un falso. La leggenda secondo la quale non c’è da preoccuparsi poiché i poteri di controllo e garanzia verrebbero esercitati – se non più dal parlamento – dal garante politico della nostra Costituzione, il presidente della Repubblica. Nella bozza sul premierato lo sforzo per lasciare la forma dei poteri del capo dello Stato ed eliminarne la sostanza è in effetti straordinaria. Ma, nondimeno, ipocrita.

Che senso ha lasciare al capo dello Stato il potere di «conferire» l’incarico al premier eletto quando è escluso che possa esercitare alcun ruolo di intermediazione e stimolo, così com’è oggi, per la nomina del presidente del Consiglio da incaricare? Puro notaio di un esito elettorale. Così è anche per il potere di scioglimento delle camere: che senso ha lasciare la decisione al presidente della Repubblica dopo aver tipizzato in costituzione la durata di governo del premier e aver rigidamente delimitato persino l’eventuale passaggio di una crisi di governo senza possibilità di mutamento di maggioranza? Anche in questo caso i margini dell’azione autonoma del garante della Costituzione appaiono minimi se non inesistenti.

Infine, proprio la previsione di una crisi di governo e la possibilità di nominare un nuovo premier scelto tra i soli parlamentari di maggioranza (della ex maggioranza?), con l’obbligo per quest’ultimo di continuare ad attuare l’indirizzo politico e rispettare gli impegni programmatici del precedente, dimostra lo stato di confusione in cui versa il disegno di legge costituzionale che si vuole proporre.

Dopo aver scelto la via della legittimazione popolare, si torna a quella parlamentare? Dopo avere sottomesso il parlamento alla volontà del capo eletto dal popolo, si permette al primo di prevalere sul secondo? Non sono sovrapponibili le legittimazioni popolari e quelle parlamentari. Tantomeno possono vincolarsi i governi che ottengono una (nuova) fiducia agli indirizzi e ai programmi dei precedenti. Che si è fatta a fare la crisi? Solo per sostituire il leader eletto dal popolo. Ma è come ammettere che è meglio non eleggere nessuno, riaffermando – magari razionalizzando – i principi del parlamentarismo e i ruoli di un governo parlamentare e di un garante con funzioni di «risolutore degli stati di crisi». Molto altro ci sarebbe da dire, ma ho lo spazio solo per una altra considerazione.

Mi sembra un vero azzardo volere inserire in Costituzione una specifica formula elettorale che unisce le votazioni di parlamento e presidente del Consiglio, che indica le modalità di voto (unica scheda e collegamento di liste con indicazione del premier), che fissa il premio pari al 55% dei seggi senza alcuna previsione di una soglia minima di consenso ottenuto dalle coalizioni.

Si toccano principi supremi (il principio di rappresentatività, ma anche le modalità di espressione della sovranità popolare) con una disinvoltura sorprendente. È stata la Corte costituzionale e ricordare che così si rischia «un’alterazione profonda della composizione della rappresentanza democratica, sulla quale si fonda l’intera architettura dell’ordinamento costituzionale vigente». Altro che riforma soft.